TIPOLOGIA DI UNO DEI PIÙ ANTICHI E LONGEVI NATANTI

La zattera dalla preistoria ad oggi

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Le zattere e i natanti affini non sono tipi peculiari di lontani e avventurati paesi tropicali. Se ne sono trovate e tutt’ora si trovano in ogni zona climatica tale da consentire la libera esposizione degli imbarcati al sole, al vento e all’acqua. Interessanti tipi di antica origine si possono reperire anche in casa nostra, in Italia, come il “fassoni” dello stagno di Cabras in Sardegna, pressoché uguale ad un tipo del Portogallo, la “cannizza” di Giulianova in Abruzzo,  le “zàtara”, “zataròn”, “passo” e “fodero” del Po, affluenti e acquitrini dove dalla zattera vera e propria si è passati per gradi alla forma di barca a fondo piatto che chiaramente mostra la sua origine. Da ricordare anche l’esistenza storica delle zattere formate dai tronchi dei boschi di conifere delle prealpi venete scesi per via di fluitazione  fino alla Laguna di Venezia e al suo celebre Arsenale, condotti da una categoria di marinai detti “zàtari”. Un sistema di trasporto economico ancora praticato,ad esempio, in Africa e in America. L’estesa rete dei fiumi e dei canali dell’Europa specialmente centro-orientale ha favorito fino a tempi non molto lontani  un intenso traffico per via d’acqua servito da tipologie di natanti assai variate e a volte notevolmente grandi oltre che numerosi piccoli impieghi locali con una miriade di galleggianti che generalmente non hanno attirato l’attenzione quanto l’argomento meriterebbe. Il materiale impiegato è il più vario, va dal tronco d’albero grezzo o squadrato o variamente lavorato o adattato, dal grande bambù di certe località tropicali, dai fasci di tipici vegetali di palude qual è il “papiro” egiziano e il “totora” peruviano, di quanto insomma si reperisce nell’ambiente ecologico, nulla escluso.

La letteratura antica e moderna — dall’»Odissea» di Omero, che ci ha angustiato sui banchi della scuola, ai romanzi di avventure dei celebri Verne e Salgari, che ci hanno deliziato nelle ore libere dei nostri anni verdi — ci ha fornito, della zattera, un’idea errata facendocela ritenere un problematico mezzo di salvataggio improvvisato con mezzi di fortuna, per lo più in extremis.

Ci sono state effettivamente, e potranno esserci ancora, zattere di questo genere, ma esse restano al margine di una vastissima e originale produzione nautica, di cui si hanno in etnologia esempi assai interessanti. Mezzi di estesa tipologia, a volte molto semplici, a volte complessi e molto ingegnosi, che possono essere considerati «primitivi» soltanto per convinzione di comodo o perchè poco o nulla conosciuti e sperimentati.

Non è che intendiamo occuparci della zattera quale piattaforma formata da resti di alberatura e di pennoni e da legname recuperato da sezioni fracassate dello scafo di una nave, su cui trovavano rifugio i superstiti di un sinistro, come i disperati naufraghi de «La Méduse», cui si è ispirato il celebre dipinto di J. L. Géricault (1819) riguardante una delle più impressionanti tragedie del mare (1*). Non intendiamo occuparci neppure delle ultime realizzazioni moderne, quali le zattere Carley, quelle grandi ciambelle di forma ovale, che si vedevano sistemate sulle sovrastrutture delle navi da guerra e dei trasporti durante l’ultimo conflitto mondiale, soppiantate ormai dai canotti di gomma autogonfiabili.

La nostra attenzione va indirizzata invece alla zattera utilizzata ancor oggi in molte parti del mondo per la navigazione costiera e d’altura, per la pesca o per il trasporto, con l’impiego di vari materiali e secondo varie tecnologie, sino a quelle forme complesse, che la rendono simile ad una vera e propria imbarcazione munita di prua, di poppa e di fiancate. Va inteso infatti che la zattera non si limita al natante formato da tronchi d’albero o da bambù appaiati longitudinalmente in due o più elementi, ma comprende anche i natanti di varie specie di pianta acquatica, nonché le piattaforme galleggianti con l’ausilio di otri o di vasi fittili.

Una curiosità etimologica riguardante il «catamaran» o catamarano (termine questi generalizzato nella nautica da diporto) ci porta ad iniziare dalle coste dell’india Meridionale il viaggio ideale, che intendiamo intraprendere nella rassegna delle zattere. S’intende comunemente per «catamaran» il battello doppio, a due scafi, che, a vela e a motore, va diffondendosi grazie a certe sue peculiari caratteristiche, che hanno attirato l’interesse di più d’uno degli architetti e costruttori navali. Né mancano esempi anche in fatto di navi di una certa mole, da passeggeri o per servizi speciali, in realtà il termine «catamaran» deriva dall’indiano «ca thu-maram», che significa letteralmente «tronco legato», nome che viene dato a quelle zattere, che rappresentano il natante di gran lunga il più diffuso lungo le coste del Coromandel, da Capo Cabinier a Madras e Pondichery sino a Orissa. La costa corre, in queste piaghe, bassa e sabbiosa, senza alcun rifugio naturale, battuta incessantemente dal mare lungo dell’Oceano Indiano, impraticabile pertanto a qualsiasi altro tipo d’imbarcazione, che non resisterebbe senza danni alle sollecitazioni della violenta risacca. Questi natanti costituiscono l’imbarcazione ideale dei pescatori Tamil: di costruzione facile ed economica, tenuti insieme esclusivamente per mezzo di legature, insommergibili e indistruttibili, essi possono prendere terra senza difficoltà grazie anche all’abilità degli indigeni.

Pur esistendo in etnologia diversi tipi, e ben più appariscenti, di battelli doppi veri e propri, l’adozione dei termine «catamaran» potrebbe spiegarsi col fatto che, in caso di andatura a vela, si accoppia alla zattera principale (detta «periya-maram», lunga di solito 8 metri o poco più) una zattera più piccola (chiamata «chinna-maram», lunga 6 o 7 metri), che svolge la funzione di stabilizzatore. li rapporto tra lunghezza e larghezza di queste zattere, pari a 1: , è tipico delle imbarcazioni molto veloci, come in effetti esse dimostrano di essere. L’equipaggio è formato normalmente da 3 o 4 uomini; la vela, issata su di un albero molto corto e inclinato in avanti, non è molto grande; si fanno notare le pagaie, di forma del tutto originale e inconsueta, formate da una tavola leggermente falcata con un bordo rinforzato.

Tre sono i tipi principali: il «periyamaram», utilizzato sovente come unità semplice; l’«irukka-maram», un tipo più grande, ma sempre a vela unica; il «kola-maram», più grande ancora, munito di due vele su due alberi in tandem. Quest’ultimo tipo viene impiegato nella pesca dei pesci volanti, che si prendono molto al largo, sicché il vento e la corrente trascinano i pescatori in alto mare, sovente molto lontano, fino a 50 miglia dalla costa.

Lungo il Tlogu i «catamarans» vengono costruiti in modo diverso e si distinguono per l’impiego di caviglie, con le quali sono tenuti insieme tutti o parte degli elementi, che compongono la zattera. Sui bordi esterni sono inoltre cucite delle tavole onde proteggere in qualche modo gli uomini e il carico dai colpi diretti del mare. False chiglie o tavole di deriva, inserite verticalmente a proravia, hanno il compito di correggere lo scarroccio. All’atto del traino a terra, le zattere vengono divise in più elementi togliendo le caviglie e sciogliendo i nodi, ma i tipi in uso lungo le coste del Gajam sono incavigliati in maniera tale, che l’imbarcazione viene alzata intera.

L’isola di Ceylon si divide etnica- mente in due parti. La centrale e la meridionale è popolata da Cingalesi; la settentrionale, invece, è popolata da immigrati Tamil, venuti dalle opposte coste dell’india con i noti «cathu-maram», che però si diversificano da quelli sopradescritti per essere costruiti con elementi sagomati in maniera da presentare la piattaforma sensibilmente concava. La parte prodiera si solleva facilmente sopra l’acqua con effetto planante sicché talune zattere, come quelle Negombo, sono state modernizzate mediante un apprestamento poppiero, che serve da sostegno ad un motore fuoribordo.

Detto questo, non ci soffermeremo sugli altri numerosi tipi, che s’incontrano sulle acque dell’india, lungo le coste del Kerala, nella regione di Quia bn, a Tanjore, ecc., formate da tronchi con le estremità a volte appuntite, o sgrossati e sagomati in maniera tale, con tavole di fiancata, da assumere la forma di barca più che di zattera, come l’interessante tipo della regione di Vizagapatam.

Eccoci ora a certe zattere fluviali e lacustri della Malesia, formate da una mezza dozzina di tronchi di legno leggero o di bambù. Ricordiamo anche una grande zattera da pesca munita di abitacolo all’estrema poppa e di un apprestamento a leva, che serve per abbassare e alzare un bilanciere, col quale viene manovrata una rete a tuffo quadrangolare, di un tipo, che si trova diffuso in tutto l’Estremo Oriente. Nelle regioni settentrionali della Birmania s’incontrano le tribù Lisu, che usano un originale zatterino formato da due tavoloni tenuti insieme da particolari legature, che consentono ad un uomo di infilare le braccia per tenere lo zatterino sulle spalle come uno zaino. Sui fiumi del Borneo flottano sul filo della corrente grandi e solide zattere munite di tettoia a capanna con parapetti di stuoia e di lunghi remi timone, a pala larga e corta, sistemati in coppia sulla estremità poppiera, su forconi ricavati da rami biforcuti. Numerose sono le zattere di bambù della regione indocinese munite di due o tre alberi con vele triangolari e di remi di forma europea, che si spingono anche sul mare, sottobordo dei piroscafi ad offrire prodotti locali, suggerendo un impiego attivo nel piccolo traffico di cabotaggio.

La regione cinese meridionale ha dato alcuni dei tipi più interessanti, quali la zattera di tronchi di Miao Tzu, formata da sette elementi tenuti distanziati gli uni dagli altri per mezzo di due assi trasversali, una delle quali, la poppiera, passata attraverso dei fori praticati nei tronchi stessi; la precessione avviene per mezzo di un remo timone manovrato da un uomo a sciavoga. D’indubbio interesse anche dal punto di vista spettacolare sono quei gruppi di zatterini di bambù, stretti e lunghi, con le estremità rialzate, che sono impiegati in gran numero sullo Yang-Tze-Kiang per la pesca del cormorano, in un paesaggio fiabesco fatto di acque speculari e di pittoreschi e tormentati profili dì montagne, che vi si riflettono. Un uomo muove il natante con una pertica e comanda il tuffo di un certo numero di uccelli, che tiene legati per mezzo di lunghe cordicelle, mettendo il pesce da essi catturato in un grande cesto sistemato a metà zatterino. Un modellino del Museo delle Scienze di Londra riproduce una lunghissima zattera da trasporto del fiume Va, affluente dell’alto Yang-Tze-Kiang, munita di piattaforma sopraelevata sul piano di galleggiamento per impedire il contatto dell’acqua con le merci, che trovano riparo sotto tettoie semicilindriche di stuoia. Caratteristica la struttura dì prua e, a poppa, il solito remo-timone. Si vedevano un tempo, sul Fiume Giallo, certe curiose zattere a spalliera, munite di decorazioni stilizzate, che avevano l’aspetto di letti galleggianti. Più vasta l’area di diffusione della zattera da pesca con rete a tuffo, di un modello non molto dissimile, nelle linee generali, dallo esemplare malese già conosciuto, e da altro esemplare, che si nota suI Lago Sun Mon nell’isola di Formosa, o dalla zattera «moro» delle Isole Sulu, nello Arcipelago delle Filippine, caratterizzata da altissime antenne. Tutti questi esemplari hanno in comune un riparo a capanna, a poppa, e un bilanciere mobile, con contrappeso, a prua.

Ma il tipo più interessante tra tutte le zattere cinesi — da cui, secondo taluni, sarebbe derivata la stessa giunca — è la zattera concava di T’ai Wan, la cui area di diffusione comprende anche I ‘Arcipelago delle Pescadores. Formata da elementi di bambù sensibilmente arcuati e tenuti insieme con l’antico sistema a legature, munita di derive mobili e di quattro remi, di una vela rettangolare di tipo cinese, con o senza stecche, essa è aperta all’acqua, che ha accesso da tutte le parti e che rifluisce liberamente, per cui gli occupanti, che vogliono tenere i piedi all’asciutto, si servono di una specie di tinozza.

Una stampa giapponese ci mostra una zattera per la fluitazione del legname a Arashigama, condotta da due boscaioli con l’ausilio di pertiche; un fuoco arde su di una piattaforma di terra. Zattere molto semplici si notano nelle regioni asiatiche continentali, dal Tibet alla Mongolia, sul lago Hubsugul, al confine con la Siberia, propulsa quest’ultima da un uomo, che, seduto su di una specie di scranno, manovra un remo per mano. Non sono mancate, sui fiumi della Siberia, e forse esistono ancora, grandi zattere adibite a trasporti relativamente pesanti, munite a poppa di una lunga trave di governo con l’estremità appiattita come una pala di timone.

Le sconfinate distese equoree della Oceania, disseminate da miriadi di arcipelaghi, d’isole e d’isolotti, per lo più d’origine corallina, rappresentano ancor oggi un serbatoio nautico etnografico di grande ricchezza. Date le caratteristiche ambientali, le zattere trovano in queste pIaghe impiego più limitato presentando tipi peculiari.

Si notano nella Nuova Guinea svariati esemplari nella regione del Golfo di Huon, sul fiume Markham, nelle Terre di Nord-Ovest, sul fiume Musa e nella regione di Capo Sud, dove la «eanga» va annoverata tra le zattere più originali anche se molto semplice Formata da tre o quattro tronchi tenuti insieme mediante tre ordini di lega ture, presenta le estremità smussate e sagomate come la prua e la poppa di un battello. Non molto dissimile è un tipo, a poppa tronca, delle Isole Marchesi, formato da tre tronchi tenuti insieme da due lunghe caviglie, che passano i tronchi da parte a parte. Caratteristica la leggera zattera di S Cristobal nelle Salomone, formata da numerose verghe, che vanno a restringersi in un fascio di prua tenuto arcuato in modo pronunciato da un tirante di corda.

Le Isole Figi sono depositarie di numerosi modelli, alcuni dei quali del tutto originali, che non hanno riscontro in nessun altro sito. Merita un accenno Io zatterino di bambù di Viti Levu il «bilibili», una zattera più grande impiegata per la discesa dei corsi di acqua, nonché un tipo similare ancor più grande usato nella navigazione marina a pagaia, munito di un leggero riparo a due spioventi. Ma ecco la zattera di Vanikoro con piattaforma notevolmente elevata sopra il piano di galleggiamento formato da cinque tronchi, tanto da necessitare di uno stabilizzatore, cioè di un bilanciere, elemento d’impiego pressoché generalizzato in queste piaghe su tutti i tipi d’imbarcazione. È un esempio unico, cui sembra derivare quella curiosa imbarcazione che si vede dalle stesse parti, di forma simile a una canoa a bilanciere, ma in cui la zattera è ridotta ad un tronco unico, appuntito alle estremità.

Nell’Arcipelago della Società esistono zattere tra le più grandi, che si conoscono, di costruzione complessa e molto robusta, munite di spazioso abitacolo a capanna e di due alti alberi bìpodi con degli apprestamenti, a prua e a poppa, pure bìpodi, inclinati e sporgenti come bompressi. Esse sono forse le discendenti di quelle zattere di balsa, che sarebbero venute, in tempi antichi, dalle coste meridionali del continente americano. È ciò che si è proposto di dimostrare lo scandinavo Thor Heyerdhal, nel 1947, con la sua «Kon-Tiki», costruita sulla base dei modelli primitivi. Partito con cinque compagni da Callao, l’ardito navigatore toccava l’isola di Raroia, in Polinesia, dopo 101 giorni di fortunosa navigazione sul filo della corrente e dei venti, che nel Pacifico Meridionale sono predominanti da Est verso Ovest. Una altra verifica delle capacità della zattera di balsa veniva eseguita recente- mente, nel 1970, dallo spagnolo Vital Alsar, che con tre compagni copriva, in 156 giorni, le 7000 miglia, che separano l’Ecuador dall’Australia, dove giungeva felicemente superando violente tempeste e difficoltà d’ogni genere, senza che la zattera subisse avarie degne di rilievo.

Accenneremo infine alla zattera piatta delle Isole Gambier, nell’Arcipelago delle Paumotu, munita della caratteristica vela polinesiana a triangolo rovesciato, capace di diversi uomini, per scendere infine nella Nuova Zelanda, dove esiste un tipo, che anch’esso può essere considerato unico nel suo genere, la «amatiatia» formata da una doppia piattaforma di cinque tronchi molto leggeri e stabilizzati, a mo di bilanciere, da altri 3 tronchi. Merita un accenno, prima di lasciare questi mari la singolarissima zattera delle Isole Chaham, usata nella caccia agli uccelli acquatici, che è formata da tronchi disposti in maniera da costituire una specie di truogolo.

Un balzo attraverso l’Oceano Pacifico porta al continente americano, dove, lungo le coste del Perù, navigavano un tempo quelle grandi zattere di balsa, di Cui abbiamo fatto cenno. Composte di tronchi sovrapposti in due o tre ordini, di un legno tipico delle foreste tropicali, molto leggero e a fibra minuta e compatta, che lo rendono resistente all’acqua, erano munite di abitacolo a capanna e di una alberatura bipode munita di una grande vela quadrangolare e di una controvela più piccola. Nella provincia di Guayas, a Playas, vi sono tuttora non p0- chi esemplari di un tipo ridotto a due soli tronchi con estremità coniche e vela triangolare.

Ma le zattere americane più note, costruite ancor oggi in gran numero, sono le «jangadas», che s’incontrano lungo le coste Nord-Est del Brasile, da Recife a Fortaleza. Impiegate nella pesca di altura, condotte sino ad incrociare le rotte dei grandi piroscafi intercontinentali da una razza di pesca- tori-marinai intrepidi, gli «jangaderos», esse sono entrate nel folclore e nella leggenda. Sono formate da 5 o 6 tavoloni tenuti insieme da caviglie di legno e legature (non c’è il più piccolo pezzo di ferro a bordo della «jangada», come del resto in nessuna delle zattere primitive) , facili da essere alate sulle spiagge basse e sabbiose di quelle pIaghe, battute dall’onda lunga dell’Atlantico, hanno la prua e la poppa tronche, una grande deriva mobile, un lungo remo timone, un albero flessibile su cui è inserita direttamente una grande vela triangolare, molto grande in rapporto al natante. Sono ingombre di ceste e di caratteristiche attrezzature, tra cui una singolare ancora di legno appesantita da un grosso sasso di forma ovale. Non inganni l’aspetto fragile e la piccola mole della «jangada»: con un simile mezzo sono state percorse senza danni le 4000 miglia, che corrono tra Recife e Rio de Janeiro! Zattere simili, spesso senza vela, e munite di ripari di foglie di palma si trovano anche nel Venezuela e nel Mar delle Antille (vedi i bei modellini, opera di artigianato indigeno, conservati nel Museo del Mare di Trieste).
Nell’isola di Giamaica, sul Rio Grande, sono impiegati lunghi zatterini di bambù per le escursioni dei turisti, che stanno comodamente seduti a poppa, mentre un uomo manovra, sul da vanti una lunga pertica, in mezzo ad una vegetazione lussureggiante.

L’Africa non presenta, tra le zattere di tronchi, tipi degni di nota. Molto semplici e primitivi quelli del Lago Naivasha nel Kenya, formate da cinque tronchi corti e tozzi, ai quali è richiesto unicamente il requisito della galleggiabilità. Più allungate, e ridotte spesso a due soli tronchi legati sommariamente, le zattere usate dalle tribù Eimu e Turcana del Lago Rodolfo. Sul Fiume Oguè, nel Gabon, si notano grandissime zattere, o meglio treni di zattere, per mezzo delle quali viene convogliato al mare il legno pregiato delle foreste dell’interno. Sono molto lunghe e hanno costruite sopra quattro, cinque e più capanne per il riparo dei boscaioli, ai quali spetta il compito di mantenere il convoglio sul filo della corrente. L’Africa è titolare, invece, dì molti tipi di piroghe monòssili e di tavole cucite ma soprattutto delle zattere di giunco, delle quali ci ripromettiamo di trattare in una nuova occasione.

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Gericault - Le radeau de la meduse - 1819

Nell’estate del 1816, un convoglio di 4 navi francesi era in rotta verso il Senegal per prendere possesso di alcuni possedimenti restituiti dall’Inghilterra dopo la fine delle guerre napoleoniche. Faceva parte del convoglio la fregata «La Méduse», che, al comando del signor di Chaumiareys, aveva a bordo 240 tra uomini e donne. Sopravvanzate le altre navi, che erano più piccole, e giunta al largo di Capo Bianco senza eseguire un sicuro rilevamento per incuria e incapacità del comandante, la fregata investiva, il 2 luglio, il Banco di Arguin. Dopo alcuni maldestri tentativi di disincaglio, la nave restava vittima del mare fattosi grosso. Non essendoci nelle scialuppe posto per tutti, veniva approntata una grande zattera, sulla quale salivano a stento, gomito a gomito, ben 150 sventurati, sotto il peso dei quali la zattera cedeva al punto da far salire l’acqua alla loro cintola. Presa dapprima a rimorchio verso la terra non lontana, la zattera veniva abbandonata vilmente a sé stessa causando una delle più tragiche sciagure di tutta la storia della navigazione con la morte di oltre 135 naufraghi, tra scene indescrivibili di pazzia collettiva, di cupa disperazione, di violenze inenarrabili, di abiezioni, di risse, di uccisioni, di atti di cannibalismo (non va dimenticato che gran parte dei componenti della spedizione, come si usava una volta, era stata reclutata tra i galeotti). L’odissea durava 13 giorni e all’arrivo di soccorsi tardivi sopravvivevano soltanto 15 uomini ridotti all’ultimo respiro, tanto che alcuni di essi morivano dopo il ricovero in ospedale. Il fatto, divulgato (ma in forma alquanto romanzata) da due superstiti che sapevano tenere la penna in mano, l’ingegnere geografo Corréard e il medico chirurgo Savigny, sollevava molta risonanza in tutto il mondo gettando un’ombra sulla marina francese dell’epoca. L’argomento veniva ripreso nel 1973 da Georges Bordonove  con accurata revisione delle fonti su base archivistica.

 

Navi di modello primitivo sopravvissute ai giorni nostri

Le più antiche rappresentazioni iconografiche della storia della navigazione provengono dall’Egitto: si reperiscono tra i graffiti, le pitture vascolari e i bassorilievi della tomba del faraone Mene (3400-3000 a. C.) e della Nubia. Di un millennio più recenti sono i modellini rinvenuti tra le suppellettili della tomba di Mehenkvetre, alto funzionario di corte, rappresentanti barche fluviali munite di prua e di poppa molto rilevate, sagomate in maniera caratteristica e serrate in guaine di cuoio, che avevano la funzione di mantenere nella forma desiderata il materiale inerte impiegato nella costruzione dei natanti.

Queste prime imbarcazioni, munite di padiglioni o tuga, di remi-timone e, spesso, anche di vela, appartenevano alla categoria delle zattere e venivano costruite non con tronchi d’albero, o altro legname, che in quell’epoca era materiale ricercato e costoso, ma con gli economici fusti del papiro, che cresceva rigoglioso e abbondante lungo il corso del Nilo, dalle sorgenti perdute nel cuore del continente africano sino al delta, dove le acque dolci vengono a mescolarsi col mare.

Tanto economiche e funzionali, queste imbarcazioni, da esser mantenute in uso anche al giorno d’oggi nelle regioni più interne della Nubia, dell’Etiopia, dei territori del Ciad. Trattasi per lo più di battellini individuali o, al massimo, capaci di una mezza dozzina di uomini; al posto del papiro, fattosi raro o scomparso, vengono impiegati altri vegetali di caratteristiche similari, come l’«anbac», la «typha» e certi fusti di palme nane.

Il Nilo Azzurro e il Lago Tana sono tuttora depositari di più di un tipo di chiara derivazione faraonica, come la «tanqua» del Tana, discostantisi via via, che ci si allontana dai centri genetici dell’antico Egitto, come la canoa degli Haruroro del Lago Margherita, mossa da singolari pagaie con la pala curvata all’in giù, come gli zatterini degli Arussi del Lago Zway, mossi da una pagaia a due pale, strette e lunghe, come la piccola imbarcazione del Lago Barigo nel Chenia, a prua rilevata, a poppa tronca e aperta, con pagaia senza manico, la cui pala viene tenuta direttamente dal pagaiatore. Ma le più belle imbarcazioni attuali sono quelle del lago e degli estesi acquitrini del Ciad, dove non è ancora estinta la schiatta degli abili artigiani, che sanno lavorare il papiro. Trattasi di imbarcazioni di una certa dimensione, con prua e poppa armoniosamente rilevate, munite di riparo centrale su leggera intelaiatura semicircolare, mosse da due uomini per mezzo di lunghe pertiche. Un’area di diffusione molto estesa, dunque, e orientata geograficamente, grosso modo, secondo un’asse longitudinale, che si può reputare toccasse anche l’Italia Meridionale considerando il fatto, che il papiro cresceva anche in Sicilia e che sopravvive in Sardegna ancora al giorno d’oggi, nelle peschiere di Cabras, un’imbarcazione di canna, la cui forma non si discosta di molto dagli antichi natanti nilotici, tranne che nella poppa, tronca e aperta.

Questo tipo di zattera, in uno con i celebri reperti archeologici e con la tradizione storica dei grandi viaggi intrapresi da flotte egiziane, non ha mancato di attirare l’attenzione dell’etnologo e navigatore Thor Heyerdahl, che, dopo il noto viaggio da lui intrapreso, nel 1947, con la balsa «Kon-Tiki», di cui abbiamo fatto cenno nel precedente fascicolo, ha voluto sperimentare il comportamento del papiro costruendo in Egitto, nel 1969, una nave ispirata ai modelli faraonici con l’intento d’intraprendere la traversata dell’Atlantico. L’impresa si presentava meno facile, questa volta, perchè il papiro s’è fatto raro, in Egitto. Ne sono stati fatti venire dall’Etiopia 150 m3, mentre due artigiani pratici della sua lavorazione sono stati trovati a Bol, sul lago Ciad. Ne è risultata un’imbarcazione di 12 tonn., lunga 15 metri, battezzata col nome di «Ra», che veniva impiegata in un primo esperimento non compiutamente riuscito. Heyerdahl faceva pertanto costruire una seconda imbarcazione con la quale, partendo da Safi, in Marocco, con 7 compagni, tra i quali un italiano, ha raggiunto felicemente l’America Centrale dopo una traversata di 4 mesi alla velocità media di 3 nodi, non molto diversa dalla velocità di crociera di un vascello settencentesco. (2*)

Ed è proprio nel continente americano, che si trovano le più belle imbarcazioni di giunco, e precisamente sul lago Titicaca situato, come si sa, tra la Bolivia e il Perù su di un altopiano a 3812 metri di altezza. Circostanza, questa, straordinaria che, grazie alla protezione offerta dall’ambiente, ha consentito a queste imbarcazioni di sopravvivere intatte ai rivolgimenti culturali, che hanno interessato le zone più basse di quelle plaghe. Circostanza straordinaria anche per la rassomiglianza esistente tra di esse e certi tipi africani nilotici e del Ciad, rassomiglianza che gli etnologi spiegano col fatto che l’uomo, pur relegato nelle regioni più disparate e più lontane le une dalle altre, ha reagito nello stesso modo di fronte a disponibilità di mezzi e ad ambienti affini.

Sulle sponde e sulle isole del grande lago andino vivono gli Aymarà, famiglia etnica in india ancora forte, preesistente agli Incas, la cui attività preminente è la pesca. Le acque del lago sono leggermente salmastre e abbondano di una specie di sardina, che viene pescata con le reti tese da numerose imbarcazioni, di forma assai aggraziata, costruite con fasci del giunco «totoca», che cresce in abbondanza lungo le sponde acquitrinose. Occorrono non meno di quindici giorni per costruire ciascuna di queste barche; i fasci di giunco vengono costipati a colpi di pietra e legati strettamente con molti giri di cordicella, tanto da rendere la fibra impermeabile all’acqua, consentendo la durata di un triennio, che è notevole in rapporto al materiale impiegato. Di giunco è anche la vela, che è di forma rettangolare, o tronco conica, o più raramente ad esagono allungato, e che viene issata su di un piccolo albero bipode abbattibile. Tutte queste zattere sono utilizzate generalmente da un uomo, ma esiste anche un tipo da trasporto, e pertanto di dimensioni più grandi.

Scendendo sulla costa peruviana, s’incontra a Piura, alla frontiera con l’Equador, il «caballito», semplice zatterino da pesca a prua affusolata sul quale il pescatore sale a cavalcioni, come su di un cavallo «donde il nome) ponendo il pescato in un pozzetto ricavato a poppa. Non è infrequente, in queste zone, un mezzo di trasporto per due o tre persone e un po’ di mercanzia, costituito da due galleggianti a forma di sigaro appaiati costa a costa e propulsi per mezzo di una pagaia a doppia pala. Nella laguna di San Pablo, in Equador, esisteva, e forse non è del tutto scomparso, un galleggiante di giunchi assai primitivo di durata e d’impiego limitati, mentre più a nord, nei golfi della California Meridionale, gli indios Saris costruiscono un natante molto affusolato e aggraziato, che termina, a prua, con una lunga appendice in- curvata verso il basso, come il collo di un cigno.

Le isole dell’Oceano Pacifico sono depositarie di tipi non numerosi, ma disparati, dallo zatterino primitivo dell’isola di Pasqua, all’«ebeed» delle isole Gilbert (piccola zattera a doppio galleggiante impiegata nella pesca in acque basse), al «mohiki» della Nuova Zelanda e delle Isole Chatham (a forma di sigaro), a vari tipi notevolmente progrediti e formati da una mezza dozzina di fasci di canne disposti a forma di canoa (uno dei quali è sorprendentemente simile all’imbarcazione di Cabras, in Sardegna, di cui si è fatto cenno).

Alle Isole Chatham appartengono i tipi più elaborati e curiosi, che è dato di vedere: il «waka puhara» e il «waka pahi». Di struttura complessa e ingegnosa, con due chiglie e intelaiatura a forma di chiatta, che serve di sostegno alle fiancate di canne mentre l’interno è riempito di alghe costipate, tali imbarcazioni presentano doti di galleggiabilità sorprendenti, tanto che il tipo più grande, lungo circa 18 metri, ha la capacità di una cinquantina di uomini, rappresentando quindi l’imbarcazione di questo genere più grande che si conosca.

Chiuderemo il capitolo con un cenno alla zattera di corteccia della Tasmania, che presenta una forma non molto dissimile dalla «totoca» del Titicaca o da certe zattere del Ciad. Imbarcazione, quindi, d’interesse notevole, anche se realizzata in maniera molto primitiva e non rifinita come i modelli citati.

Il nostro discorso sulla tipologia delle zattere non sarebbe completo senza un cenno a quella singolare categoria di natanti la cui galleggiabilità è assicurata, e in modo egregio, da otri di pelle gonfiati, di bufalo, di montone, di capra.

Anche per questa categoria troviamo riferimenti archeologici e un centro genetico specifico, che è situato precisamente in Mesopotamia, lungo i grandi fiumi Tigri e Eufrate. Antichi bassorilievi assiri del primo millennio a. C. riproducono quel tipo di zattera, la «kalek», che ancor oggi è largamente usata per portare a valle ogni specie di mercanzia, dopo di che la zattera, che può raggiungere dimensioni anche notevoli, viene smontata e gli otri, sgonfiati, vengono caricati su di un carro, che fa il viaggio di ritorno. Metodo antichissimo, quindi, e molto pratico, che è stato utilizzato perfino dai distaccamenti della marina da guerra tedesca inviati in Mesopotamia in aiuto ai Turchi durante la guerra del 1914-1918.

Galleggianti di notevoli dimensioni di pelle di bufalo si incontrano sul fiume Sutlej, nel Pungiab, ai piedi dell’Himalaia, sul Medio Indo, dove gli otri vengono usati anche come galleggiante individuale, sul quale si sdraia un uomo, con le gambe nell’acqua, muoventesi con l’aiuto di una pagaia a manico corto (vedi parimenti antichi esempi offerti da bassorilievi mesopotamici).

Notevole è la zattera cinese dell’Alto Hoang Ho, formata da 6 pelli di yak, che sostengono una piattaforma a traliccio, articolata, mossa da quattro remi. Non è questo il solo tipo esistente in Cina e merita una citazione anche la zattera di 12 otri con leggero traliccio concavo, nè mancano gli otri usati individualmente, come quelli dello Hoang Ho. E’ tanto ovvio l’uso dell’otre come ausilio al nuoto, che esso s’incontra ovunque risiedono popolazioni a livello culturale pastorale primitivo e ovunque il clima lo consente, sia in Asia, che in Africa.

In America, lungo le coste del Perù, vengono impiegate pelli di foca o di pescecane, le «balsas de odros» di antica origine, appaiate fianco a fianco a sostegno di una piccola piattaforma, sulla quale prende posto un uomo, che manovra una pagaia a due pale.

In luogo delle pelli gonfiate, non mancano esempi d’impiego di orci fittili a bocca stretta, com’è il caso di una zattera a piattaforma quadrangolare del Lago Ciad, che è munita, appunto, di quattro grossi vasi globulari legati in corrispondenza di ciascun angolo. L’insieme appare primitivo e non molto solido, adatto quindi per le acque basse e calme. Orci fittili vengono usati anche in India, a Vallore, nella raccolta delle foglie del giglio acquatico: due vasi tenuti col collo rovesciato sono uniti da due pertiche, a cavallo delle quali si pone il raccoglitore stando fuori dell’acqua quanto gli basta per fare agevolmente il suo lavoro.

Una distribuzione geografica e una copertura cronologica molto vasta, dunque, quella della zattera, che appare legata all’ambiente ecologico per tipi, per forme e per materiali più di qualsiasi altro genere d’imbarcazione tanto da assumere un posto di rilievo nella storia dell’evoluzione dell’umanità e da meritare di essere più conosciuta tra quanti s’interessano di nautica.

 

(Archivio e biblioteca dell’Associazione Marinara Aldebaran di Trieste).

 

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(2*) Colpito dalle affinità riscontrabili tra le civiltà nilotica e mesopotamica e le civiltà precolombiane, Thor Heyerdahl ha voluto sperimentare la fattibilità della traversata atlantica da est ad ovest, lungo la corrente delle Canarie, con una nave di modello primitivo rilevabile sulla base dell’iconografia egizia più antica. E’ nata così la prima «Ra», costruita con 20 rotoli massicci di papiro in forma affusolata, che iniziava il viaggio il 25 maggio 1969 partendo da Safi, antichissimo porto del Marocco, conosciuto anche dai Fenici. Mancava ogni esperienza e il natante rivelava presto un difetto costruttivo della poppa, che si aggravava progressivamente complicato dalla rottura dei timoni, che erano stati costruiti col legno di iroko, tipico delle foreste africane, non essendo stato possibile disporre del cedro del Libano, impiegato in antico dagli Egizi. Dopo 55 giorni di avventurosa navigazione e un percorso di 2702 miglia, l’imbarcazione veniva abbandonata con la poppa e la fiancata destra semisommerse a sole 530 miglia dalla Guyana Francese. Il 18 luglio 1969, chiamata via radio, arrivava una nave dalla Martinica a raccogliere coloro, che praticamente erano dei naufraghi. Thor Heyerdahl non abbandonava però il progetto e, forte dell’esperienza acquisita, costruiva la seconda «Ra» avvalendosi questa volta dell’opera di alcuni indios Aymarà del Titicaca. La nuova imbarcazione era meno lunga della precedente (11 metri invece di 15), venivano impiegati due soli fasci di papiro, molto grossi, rinforzati con un cavo teso da prua a poppa, come si vede nei bassorilievi egizi. Risultava però, al lato pratico, sovraccarica (si era imbarcato, tra l’altro, un uomo in più) per cui veniva alleggerita buttando a mare materiali e viveri di rispetto. Si rompeva anche uno dei due timoni, benché rinforzati, ma questa volta la navigazione procedeva regolarmente senza altri incidenti. Sia i fasci di papiro che le legature davano ottima prova sicché la «Ra», il 12 luglio 1970, giungeva felicemente a Bridgetown, nelle Isole Barbados, dopo un percorso di 3270 miglia ripetendo, forse, un viaggio fatto 4.000 anni fa.