Vele dell’Oceano Indiano e dell’Indonesia
Dhow di Ceylon
L’Oceano Indiano occupa un’area che può essere visualizzata come una U maiuscola capovolta, circondata completamente dalle coste dell’Africa Orientale, della Penisola Arabica con il Mar Rosso, il Golfo Persico e il Golfo di Oman, dell’Iran, del Pakistan, dell’India e giù fino all’Australia. La plaga inferiore appare invece completamente aperta rendendo possibili la libera comunicazione con la parte meridionale degli oceani Atlantico e Pacifico che a determinati fini ed effetti sembrano chiudere l’area a modo loro.
Un’area marina circoscritta da terre che presentano formazioni geologiche e ambientali molto differenziate e popolate da etnie molto diverse le une dalle altre ma tutte legate al mare che costituisce un legante col quale le popolazioni rivierasche hanno instaurato significativi contatti grazie all’apporto di reciproci e ben evidenti interessi. Una collana di civiltà egizia, sumera, babilonese, iraniana, araba, indiana, con riflessi perfino greco-romani grazie al mare che ha giocato un ruolo determinante con un regime di venti, i monsoni in alto e gli alisei in basso, ben regolato dal giro delle stagioni, tale da favorire le attività nautiche dei trasporti,dei trasferimenti, delle attività collegate con l’adozione e perfezionamento di navicella e dell’attrezzatura velica che si possono definire proprie dell’Oceano Indiano.
Va rilevata infatti, tra tante e disparate popolazioni rivierasche, una circostanza non comune cioè l’adozione generalizzata del “dhow”, termine di lingua inglese sconosciuto sul posto con il quale si intende indicare tutti i tipi e le varianti locali o etniche del caratteristico naviglio locale.
Il termine dhow compare per la prima volta alla fine del
I primi a comparire sulle acque dell’Oceano Indiano sono stati probabilmente gli egizi e i sumeri. Sia gli uni che gli altri hanno lasciato molte tracce delle attività nautiche sulle loro acque interne (Nilo, Tigri ed Eufrate) che venivano proiettate anche sul mare. Basti citare la spedizione della regina Hatshepsuth al paese di Or e il “Periplus Maris Aerithrei” una specie di prontuario riguardante il litorale orientale africano e i traffici delle spezie . Seguivano gli arabi che prendevano cognizione dei monsoni e si organizzavano spingendosi fino alle coste dell’India Occidentale. Ed araba è stata la spedizione del X° sec. a.C. fino al misterioso e sconosciuto paese di Ophir. Comparivano i greci ed anche i romani quando Roma fattasi potente e ricca si apriva alla moda delle lusorie e preziose mercanzie del misterioso Oriente. Non direttamente però ma avvalendosi e finanziando imprenditori quale il mercante greco Ippalo al quale si deve l’apertura di una via regolare di traffici tra il Mar Rosso e l’India attraverso il golfo di Oman.
Il declino economico e culturale del Medioevo provocava un regresso completo e relegava la memoria di un passato realmente vissuto nel nebuloso regno delle leggende che venivano alimentate da indiani, cinesi e arabi interessati a proprii tornaconti. L’Europa risorgeva con le imprese di Vasco da Gama e dei Portoghesi che conquistavano in regime di monopolio gli scambi tra Occidente e Oriente risollevando i commerci di merci di valore specialmente spezie (pepe, noce moscata, cannella, chiodi di garofano, papavero), stoffe (seta e broccati), oreficeria (oro, giada, avorio, perle, corallo), porcellane, tè, profumi (incenso, legno di sandalo), armi e perfino schiavi e polvere da sparo, quanto era cioè di richiamo sui mercati che stavano sviluppandosi aprendo appetibili fonti di guadagno. Accanto ai Portoghesi comparivano gli Olandesi e gli Inglesi con la costituzione di “compagnie orientali” tanto potenti da combattere e combattersi con l’appoggio dei rispettivi governi talora anche con l’uso delle armi. Le “compagnie” gestivano direttamente le navi grandi, le “indiamen”, che tali erano considerate nella loro epoca da impiegare nei collegamenti con le centrali europee, e lasciavano alle iniziative locali i traffici di cabotaggio e i trasporti complementari di carico e scarico, ragione questa che ha consentito il mantenimento del grande numero di navicelle e di imbarcazioni attive localmente nel corso dei secoli.
Un giro costiero a volo di uccello partendo dal Madagascar fino all’Australia Settentrionale seguendo l’ipotizzata U rovesciata porta ad individuare 18 paesi e un grande numero di approdi, tutti interessati al via vai delle tante dhows che, se pur non si possono considerare di un tipo unico, presentano tanti punti di corrispondenza tipologica da suggerire l’esistenza di una famiglia sola.
In linea generale si
possono dividere in due gruppi, uno con la prua e la poppa ugualmente
rastremate, l’altro con la poppa a specchio. Le varianti in fatto di grandezza
sono numerose, con uno o due alberi, anche a tre, talvolta con vele di gabbia. Ne
esistono ancora. Le più grandi sono provviste di coperta continua e di poppa a
castello, le più piccole con coperta parziale a prua e a poppa o addirittura
senza coperta. Il sartiame è ridotto al minimo e presenta la drizza della vela composta
da due blocchi di tre o quattro bozzelli che funzionano anche da straglio
posteriore dell’albero, che il più delle volte appare inclinato in avanti. In
fatto di grandezza (tonnellaggio) va ricordata la dhow “ Muhammedi”, di 550
tonnellate, costruita nel
La “abubuz” è tipica del Golfo Persico e si distingue per la forma della poppa curva e portata in alto, con timone esterno.
La “badan” (o “bedeni) , tipica della costa di Oman e Muscat, veniva impiegata specificatamente per la pesca. Snella di forme e con bordo libero basso, non è pontata se non parzialmente a prua e a poppa, con albero in posizione verticale e manovra del timone con giogo di corda il che sta ad indicare un’imbarcazione di piccola stazza.
La “baghla” o “bagala” si presta a portate tra le più grandi, fino a 400 tonnellate e più, comune nel Mar Rosso. Presenta forti slanci di prua e di poppa che oltre alla manovrabilità facilitano, facendo bilancia, il disincaglio da certi bassi fondali delle zone frequentate. Notevole la poppa a specchio, tenuta molto ornata.
La “boom” può considerarsi tipica del Golfo Persico ed esce infatti dagli squeri dell’Iran e del Kuwait tra le realizzazioni di maggior mole e portata. Interamente pontata, si distingue a prima vista dal dritto di prua prolungato notevolmente oltre il bordo e dalla struttura costelliforme della poppa, che si chiude a cuneo anch’essa su di un dritto che regge, incernierato, un timone a pala stretta e lunga, azionato da un giogo di catene. Nelle costruzioni più grandi, può arrivare alle 250 tonnellate ma in media si aggira intorno alle 150. Si prestava, un tempo, alla tratta degli schiavi.
La “bournouches”, costruita nella penisola araba meridionale, con poppa molto simile a quella della “boom”, è pontata solo parzialmente a prua e poppa. Accentuata l’inclinazione dell’albero. Il bordo libero della fiancata viene tenuto decorato a più motivi.
La “dhangis” viene dall’India, ed è una versione della “boom” araba, generalmente più piccola. Il dritto di prora non è tenuto così alto ma appena sporgente.
La “khotia” e la “ghanjah” si presentano somiglianti, la “khotia” viene dall’India e la “ghanjah” dall’Oman. Quest’ultima presenta maggior diffusione e si vede in tutti i porti arabi, iraniani e a Zanzibar, al limite occidentale dell’Oceano Indiano. Molto curati i dettagli costruttivi ed anche l’impegno dedicato ad una ricca e policroma decorazione dello scafo e della poppa, fatto rimarcabile in quanto generalmente le “dhows” sono tenute prive di esteriorità estetiche presentando il più delle volte il legno naturale, al massimo oleato, tranne la carena che viene spalmata con misture antiteredini.
La “lamu dhow” o la “jehazi” di Lamu compare lungo la costa
dell’Africa Orientale dalla Somalia fino alla Tanzania, seguendo una propria
linea culturale, con vela latina triangolare senza il taglio prodero, ruota di
prua diritta, parzialmente pontata con una tettoia di mangrovia. È quasi
esclusivamente impiegata dalla tribù marinara dei Bajuni nei trasporti
commerciali più disparati.
La “mtepe” è tipica della costa africana meridionale, anch’essa con una propria linea.
La “sambuk” (italianizzata in sambuco) è propria delle coste africane del Mar Rosso. Imbarcazione bene equilibrata, pontata, con poppa quadra cabinata, ha servito perfino alla R.Marina italiana in un reparto coloniale dell’Eritrea.
La “zarug” o “zaruk” o “garukuh” è il veliero più veloce e manovrabile , di ridotte dimensioni, con una sola vela latina governata da un inconsueto sistema di bozzelli e paranchi. Buono per il contrabbando, occorre dirlo?
Naturalmente non sono qui citate tutte.
Le coste africane sentono le influenze delle culture locali innestandosi con la cultura del mare esibita dalle “dhows” che arrivano dall’India, che ha alimento ad una notevole corrente migratoria con stanziamenti numerosi stanziamenti specialmente nel Sud Africa. Vedansi la “mtepe” e la “kotia” a due alberi del Madascar.
Dall’altra parte dell’Oceano, ad oriente, lungo le coste delle Indie Olandesi (Indonesia), hanno preso piede tipi di velieri notevolmente diversificati, propri dei mari di Giava, della Sonda, di Banda, che più ad oriente cedono il posto allo stuolo delle imbarcazioni indocinesi e infine al dominio delle giunche cinesi, indice di una ricchezza di tipi e versatilità di impieghi unici nella storia della navigazione fino a tempi non tanto lontani. Costituiscono una documentazione molto interessante i bassorilievi del tempio di Borobudur (Giava), databile tra il 700 e l’800 d.C., che mostrano cinque navigli di costruzione assai originale e di struttura molto complessa impiegati evidentemente in viaggi non solo di cabotaggio, indice dell’esistenza di assestate attività nautiche già in quell’epoca. I bassorilievi sono realizzati con cura ma di difficile interpretazione, mostrano chiaramente un doppio grande bilanciere fuoribordo, due alberi a bipede o tripode, vele rettangolari con pennone superiore e inferiore, una timoneria a due remi poppieri esterni, che troviamo mantenuta anche nelle costruzioni posteriori, fino a quelle che potremmo definire moderne mentre le vele rettangolari sono state sostituite dalle rande di influsso europeo.
In conclusione, l’attività delle “dhows” non conosce nè soste nè rifiuti nel trasporto di qual si voglia genere di mercanzia. Nel Golfo Persico portano datteri da Bassora all’ India, nella penisola araba e in Africa arriva anche il sale caricato ad Aden. Qui il movimento dei passeggeri non è assente assieme a carichi di pelli e di grano che vengono da Massaua. Il porto commerciale più importante è Mombasa, vi arrivano le “dhows” dell’Iran a caricare tra l’altro pali di mangrovie che sono molto impiegati nelle costruzioni locali. Le “dhows” dell’Arabia Meridionale recano tè, caffè, grano, granoturco, arachidi, grassi e olii. Molto sviluppata la pesca. I profitti non sono grandi ma soccorre il contrabbando che è un’attività atavica specialmente per quanto riguarda l’oro e l’avorio, che interessa tutti, i capitani, gli uomini dell’equipaggio e i rivieraschi.
Ma oramai tutto sta cambiando anche nell’antico regno delle “dhows”, che qualche scrittore ha inteso qualificare romantiche, suggestionato forse dall’immutabile regolarità estiva e invernale dei monsoni in andata e ritorno a grandi vele spiegate, senza tener conto di tutto il resto, di quanto tocca a chi va per mare.
FONTI
Serge Bertino – “L’Oceano Indiano” e “I mari d’Arabia” - Grande enciclopedia Fabbri della Natura, Milano 1979
Paolo Maccione - “ I dhow” – Yacht Digest n° 79, 1996
John Jewell Antoni - “Le romantiche dhows” …….
Aldo Cherini – Due raccoglitori contrassegnati Africa Oceano Indiano e Asia con 325 e 344 disegni