Cos’è
stata la nostra Capodistria se non, per un certo verso, un museo a cielo
aperto? Un luogo dove si poteva vedere un po’ di tutto come avviene in un museo
solo che molte delle anticaglie non si trovano tra quattro mura, nel chiuso di vetrine
e di bacheche. Busti lapidei di vari personaggi, stemmi ed epigrafi a
centinaia, vere da pozzo stemmate, edicole sacre,
capitelli, colonne, modanature architettoniche, comignoli alla veneziana, cose
che non temono di essere tenuta all’aria aperta, esibite talora quali status simbol.
Guardiamo
i portali, i portoni e le porte, che si aprivano un po’ dappertutto,
rammaricandoci di ignorare i nomi dei maestri murari e dei taiapiera
che ne hanno messo mano, a volte modesti ma non
disprezzabili, oltre agli artefici che si sono fatti un nome quali Domenico da
Capodistria, Jacopo Delle Cisterne, Giovanni Sedula e
Bartolomeo Sbardilini Costa che sono stati attivi per
lo più fuori Capodistria.
Si
pongono al primo incontro
Seguendo
qua e là il reticolo viario cittadino, lo scorcio più interessante è offerto
certamente dal portale gotico veneziano del Duomo,
prospiciente l’antica basilica ristrutturata per volere del vescovo Naldini agli inizi del 1700, opera firmata dell’architetto
veneziano Giorgio Massari che ha avuto cura di
conservare il prospetto gotico che è del 1433. E allora? L’esame del
bollettario dei pagamenti effettuato da Ranieri Mario Cossar
reca nomi quali il proto Francesco da Venezia e fra Vincenzo delle Scuole Pie, Iseppo Lunari, Bastian Faroli, il taiapiera Giacomo Toffoletti, Mattio Casson, il
capomastro Lorenzo Martinuzzi e via di questo passo.
Gente che non è possibile individuare, ma troviamo anche un Vergerio,
uno Zucca, due De Mori, un Grio
che sono capodistriani.
Il
campanile, in origine alta e robusta torre militare (1380), esibisce una porta
d’ingresso che presenta una discreta sua linea estetica avvalorata da quattro
stemmi, quelli dei podestà e capitani veneziani Donato e Priuli
e dei sindaci deputati Vittori e Vergerio
(1583).
In
unità liturgica col Duomo, se così si può dire, sorge il raro edificio romanico
del Battistero, a pianta circolare, con un protiro scandito pronunciatamene dal
gioco del sole e delle ombre. Si fanno notare qui un Leone Marciano in moleca coronato con zampe e unghioni d’aquila, che sembra
uscito da un bestiario medioevale, un’epigrafe datata 1317 e due stemmi gemelli
di Nicolò Falier, una rarità assoluta che non trova
un uguale in nessuna parte dell’Adriatico e della terraferma veneziana.
Fa
la parte del leone nella Piazza del centro cittadino il Palazzo Pretorio, che
non può accontentarsi di un portale sia pure artistico ,
al posto del quale compare la scenografia di un poggiolo tenuto da due robuste
colonne sopra l’ombroso voltone di accesso alla Calegaria
e una scalinata a due rampe che arriva ad una porta archiacuta fregiata con il
busto bronzeo del doge Nicolò Donato, già podestà e capitano nel 1580, che da
lassù domina sulla Piazza. Ma un portale c’è, si apre all’estrema destra quale
accesso al cortile interno della Foresteria, opera dei tajapiera Antonio da Capodistria e del figlio Jacopo
delle Cisterne per conto di Pietro Loredan podestà e
capitano nel 1504. Il grande e anonimo edificio che chiude il lato occidentale
della Piazza risulta dall’accorpamento, avvenuto nella seconda metà del 1700,
della Foresteria, dell’Armeria poi del Monte di Pietà, sede infine del nostro Municipo. Sfoggia un portone stemmato,
semplice di fattura ma ben rifinito secondo un disegno
classico che troveremo ripetuto anche in altri edifici, contrassegnato questo
nel 1530 dal podestà e capitano Girolamo Ciconia, al
tempo del principato di Francesco Donato.
Proseguendo
nel vicino Brolo, si passa davanti al portale anche questo cinquecentesco del vescovo Bartolomeo
da Sonica (o Assonica) fregiato come di consueto
dello stemma di famiglia e da scritte didascaliche latine. È quanto rimane del vecchio episcopio demolito nella seconda
metà del 1800 per far posto alla nuova canonica. Ma è l’edificio del Fontego che richiama l’attenzione con la sua schietta
impronta veneziana, con le decine di epigrafi e di stemmi che costellano la
facciata, indice dell’importanza rivestita nel corso dei secoli da
un’istituzione che ha servito più di ogni altra alle necessità calmieratici e
alimentari cittadine. Molto semplice il portale archiacuto con la lunetta che
accoglie lo stemma del podestà e capitano Vincenzo Querini
(1563) dove è la funzione a prevalere sulla forma, la quale si ripete in tre
porte simili e altrettanto semplici rintracciabili in altro sito (Calle Vittori, Via Fabio Filzi, Calle
del Teatro Vecchio, demolito nel 1939). La vicina chiesetta di San Giacomo
esibisce un campaniletto aggettante sulla facciata e
un portale coperto da un protiro archiacuto la cui lunetta è
anch’essa fregiata da uno stemma in cotto non identificato, forse
decorativo.
Se
vogliamo vedere ancora qualche cosa di gotico veneziano, conviene portarci in
Via Verzi dove fa bella mostra il portale, appunto dei Verzi,
archiacuto con un grande stemma riccamente elaborato che spicca in controluce
nella lunetta aperta. Bisogna precisare che il cancello di ferro semibattuto, che lo chiude, non è antico ma della prima
metà del 1800 e che i merli alzati sul margine superiore del muro provengono
dalla casa Gianelli del Piazzale Derin.
In
fatto di cancellate in ferro battuto si fanno notare
il portale del Monastero di Santa Chiara e quello del Collegio detto dei Nobili, poi Ginnasio-Liceo “Combi”. Il portale di Santa Chiara non esiste più
perché distrutto nel dopoguerra: è da chiedersi che fine ha fatto la splendida
cancellata. La quale già nel 1805 aveva sollevato le rimostranze allarmate
delle monache quando i soldati francesi acquartierati
nel convento ne avevano minacciato l’integrità. Il portale del Collegio è
d’epoca settecentesca come certificato dagli stemmi del podestà e capitano
Francesco Maria Malipiero e dei sindaci deputati Vittori e Tarsia (1710), mentre la cancellata è posteriore risalendo
all’epoca della riforma scolastica franco-italica quando
veniva introdotto il liceo (1805).
Non
si può tralasciare un discorso a parte per quanto riguarda i cinque palazzi e
le tre palazzine nobiliari, cioè quel gruppo di edifici intesi a vantare uno status
simbol preminente nel panorama dell’architettura
locale anche se, nel caso nostro, non è gran cosa se non per quanto riguarda,
forse, la magione cinquecentesca più grande della città, quella cioè dei conti
Tacco, e quella dei marchesi Gravisi Barbabianca
aperta al richiamo del rococò e quindi più decorativa (1710). La Palazzina Barbabianca della Calegaria, detta
L’ingresso
della casa nobiliare intende prestarsi ad un colpo d’occhio da effetto, ed
allora contempla il rialzo di qualche gradino, le modanature un po’ ricercate,
le finestrature laterali con ferri battuti e
soprastante poggiolo che a volte è solo simbolico ma tale da creare un certo
movimento scenografico. Il Palazzo Gravisi Butorai
risponde a questi requisiti ma manca dell’ala di destra, prevista ma non
realizzata. I Gravisi Barbabianca,
pur non trascurando il portale d’ingresso che rimane un po’ sacrificato, hanno
inteso richiamare lo sguardo dei passanti verso l’alto ,
sul prospetto di due poggioli sovrapposti culminanti con un corpo di fabbrica
munito di orecchioni e di due grandi draghi decorativi speculari, in basso
rilievo, ispirati allo stemma di famiglia. E qui, al termine dello scalone
interno che porta al grande salone di rappresentanza, troviamo una porta
decorativa lapidea con arco a tutto tondo che potremo definire quantomeno curiosa.
Un portale interno con scalone esiste anche nell’atrio del Palazzo Tacco ed altro ancora nel convento dei Serviti
(Civico Ospedale), che porta dal chiostro al primo piano dell’ala di destra.
Troviamo lo schema sopra accennato anche all’ingresso del grande edificio del
seicentesco Collegio scolastico detto dei Nobili sia pure semplificato al
massimo per evidenti ragioni di economia. È da notare che non tutte le casate
cittadine titolate si sono curate di esibire una facciata architettonicamente
ricercata, accontentandosi del solo portale d’ingresso, tutt’al
più con la lunetta decorata dalla cancellata in ferro
battuto, come ad esempio la casa dei Manzini di Porta Isolana. Nulla
hanno lasciato casate pur abbienti quali i conti Grisoni,
i Sabini, gli Zarotti e non
sono mancate critiche al conte Gian Rinaldo Carli per
non aver inteso prestarsi alla costruzione di un edificio conferente prestigio
all’architettura cittadina invece di dedicarsi alla sfortunata impresa
industriale di Cerè.
Restano
da citare altri otto o nove esempi di portali e
portoni. Per primo il settecentesco ingresso della Chiesa di San Francesco (ai tempi nostri, per intenderci,
grande palestra degli istituti scolastici) al tempo del padre Francesco Antonio
Peracca da Muggia morto nel
1753, padre guardiano e ministro provinciale francescano, al quale si deve la
ristrutturazione e l’abbellimento del convento. Indi il portale a tutto tondo
con chiave di volta decorata con la testa baffuta di soldato col morione,
esibito dalla casa peraltro comune dei Gravisi Tiepolo.
La singolare grande porta dei conti Borisi di Via degli Orti Grandi, che nella sua
apparente semplicità si discosta nettamente da ogni modello della sua epoca,
che sembra anticipare di parecchio modi e gusti
moderni. Sempre in via degli Orti Grandi la grande porta bugnata ad arco a
tutto tondo con chiave di volta stemmata e datata
1664, che si apre sulla zona verde del Palazzo dei marchesi Gravisi Butorai.
Altra porta con chiave di volta stemmata si può
osservare nei pressi. Il portale che si apre in Calle dei
Tacco nel muro di cinta delle case Sereni esibisce una testa barbuta tanto grande e di
pronunciato altorilievo da richiedere una cornice litica
di protezione in posizione soprastante quasi si trattasse di un capello. Un
portale con la chiave di volta decorata da una testa giovanile, forse elemento
di ricupero, si fa notare sulla casa che fiancheggia
Caso
a sé stante è la porta a tutto tondo (di semplice porta si tratta) della pur
ricca e reputata confraternita di Sant’Antonio Abate
(poi casa Pellarini demolita nel dopoguerra) fregiata
con una sola cornicetta di contorno a scacchi che esibisce inconsuetamente i
nomi dei dirigenti statutari, gastaldo, procuratori e massaro,
Nicola Scevola, Nicola de Seni, Paolo Francia,
Michele Sanuto e di Gerolamo Vida, forse procuratore
nobiliare, a ricordo di un restauro avvenuto nel 1578.