La Bibbia racconta che una
donna, moglie di un ebreo della famiglia di Levi, partorì un
figlio e lo tenne nascosto finché poté. Poi prese un
canestro di papiro, lo spalmò di bitume e di pece, vi mise
dentro il bambino e lo depose fra i giunchi della riva del Nilo. Lo
trovò la figlia del Faraone che era discesa al fiume per fare un
bagno. Lo tenne, ne curò la crescita e gli diede il nome
Mosè, divenuto il personaggio chiave del mondo ebreo.
Ben si riconosce in questo
racconto non un ripiego improvvisato, ma la presenza nelle acque
interne dell’antico Egitto di un galleggiante in forma di
canestro formato dall’intreccio di giunchi impermeabilizzati di
cui si è perduta ogni traccia. Ma non del tutto assente, dato
che qualche reminiscenza è stata trovata nella Nubia e nel Delta
dello stesso Egitto, estesa zona di acquitrini scarsamente abitata.
Secondo la testimonianza infatti di Eliodoro e di Achille Tatius
esistevano in uso corrente certe imbarcazioni molto leggere che
potevano portare un uomo solo. Gli acquitrini erano soggetti a
movimenti di marea e poteva capitare che l’uomo dovesse sbarcare,
caricarsi in spalla il natante e andare a cercare uno specchio
d’acqua altrove.
Il tempio della Fortuna
di Preneste, presso Roma (80 a.C.), possiede un mosaico che presenta a
volo d’uccello tutto l’Egitto nel periodo di piena in cui
si vede una bireme probabilmente di stanza ad Alessandria, tre barche
e, indubitabilmente , uno di questi battellini-canestro che Luciane
Basch (“Le musée imaginaire de la marine antique”
1987) confronta con un similare modello in uso nel Viet-Nam
riscontrando una interessante similitudine.
Non solo, ma nell’alta
antichità, in epoca predinastica (3700 a.C.), si incontra un
altro di questi canestri al quale è stata conferita una forma
che lo avvicina alla barca. In Rodesia, i pescatori all’arpione
del fiume Mansu usano uno di questi galleggianti messi insieme con un
intreccio d’erbe palustri.
Uno sguardo d’insieme ad
una carta di Mercatore comprendente America del Nord e del Sud,
Groelandia, Europa, Asia e Africa consente di trarre le seguenti
indicazioni:
- la massima diffusione
delle canoe di pelle si trova nell’America Settentrionale,
Groelandia Meridionale, Asia Nord-Orientale e nelle montagne della
regione dell’Everest
- le imbarcazioni di forma
rotonda trovano la massima diffusione nelle due Americhe, specialmente
nell’America Meridionale, nella Mesopotamia, nell’ India e
nella regione indocinese
- i galleggianti a
canestro sono di casa in Irlanda, Inghilterra, Mesopotamia , Indocina,
California e nell’America Meridionale, dove si può trovare
anche un interessante modello di altra forma presente nel Museo
Etnografico di Roma.
Non è che vengano a
mancare anche in altri posti, in ordine sparso, indice di quel fenomeno
che vede l’uomo adottare spontaneamente le stesse soluzioni in
presenza di risorse e condizioni più o meno uguali e non per
scambio culturale.
Hans Kraemer
(“L’uomo e l’acqua”, 1938-45) afferma che le
imbarcazioni di pelli e di cuoio rappresentano le realizzazioni
più antiche e diffuse della nautica primigenia in tutto il mondo
etnografico. Strabone indica i Lusitani, che però non sono
più esistenti al tempo dei Romani, ed Erodoto scrive nel libro
primo delle sue “Storie”: “La meraviglia più
grande del paese, dopo la città di Babilonia, sono le barche
circolari costruite a monte dell’Assiria dagli Armeni con rami di
salice, ossatura, rivestimento di cuoio, senza distinguere prua e
poppa, riempite di paglia e caricate con a bordo anche un asino vivo. Con
due uomini ai remi, ritti in piedi, l’uno che tira il remo in
dentro, l’altro che spinge in fuori, sono lasciate andare sul
filo della corrente fino a Babilonia. Venduto il legno e la paglia
assieme al carico ( per lo più vino di palma) mettono il cuoio
sull’asino e se ne tornano a casa in Armenia, dove costruiscono
un’altra imbarcazione e ripetono il viaggio”. Il tipo
è generalizzato ma non senza qualche variante, si presenta in
più misure, le più grandi capaci di un carico di 5.000
talenti. Un certo tipo, ben curato, si rivela formato da un grande
cesto rinforzato da numerose costole e reso impermeabile per mezzo di
uno strato di bitume naturale con copertura di pelle che protegge il
bitume.
Una funzione tanto
importante da comparire negli antichi bassorilievi che mostrano i
canestri rotondi, le “qufa”, che hanno resistito al corso
dei secoli fino a non molto tempo fa operando numerose sul fiume Tigri,
messe insieme con intrecci di fusti di foglie di palma e
impermeabilizzate con pelli di bue. Non sarà fuori luogo
ricordare che durante la guerra 1914 -18 un reparto tedesco
presente sul posto quale alleato della Turchia non ha disdegnato di
servirsene. Qualche cosa di simile, osserva Kraemer, succedeva anche in
Boemia dove i contadini portavano le frutta al mercato e vendevano
anche il legno smontato delle imbarcazioni. La stessa cosa si
verificava con le così dette “casse” di Ulma che
scendevano lungo il Danubio fino a Vienna con passeggeri e merci che
mettevano in vendita compreso il legno delle “casse” stesse.
Il fatto è che
l’Europa di un tempo era quasi completamente coperta da foreste
per cui i corsi d’acqua erano praticati come vie di comunicazione
con grande concorso dei mezzi nautici con precise caratteristiche. Lo
stesso Giulio Cesare nel corso delle sue campagne di conquista della
Gallia cita le barche, le “corbite” delle acque interne,
che per forma, leggerezza e mobilità si presentavano ben diverse
dai pesanti mezzi nautici del Mediterraneo. E dalla Gallia non era
molto difficile passare nel Galles e nell’Irlanda per trovare le
“curragh” ancor oggi reperibili, se non altro nel museo di
Exeter. Douglas Philips-Birt annota una ricostruzione avvenuta nel 1971
con un’ossatura a graticcio di stecche di olmo e con un
rivestimento di due strati di tela incatramata con interposta carta
resistente. Fino a qualche anno successivo al 1930 la comunicazione tra
l’isola Donegal e la baia di Galway avveniva con l’impiego
delle “curragh” che erano lunghe appena 2,80 metri e larghe
1,20, capaci tuttavia di portare persone, merci e talora qualche
animale. Un argomento questo molto interessante meritevole di
approfondimento per la rilevanza della tipologia, delle variazioni
locali, delle implicazioni sociologiche costituendo uno degli aspetti
tipici del posto, un residuo vivente con radici molto profonde. Questi
galleggianti erano un tempo comuni, potevano portare qualche variante
per effetto del materiale usato (oggigiorno anche gomma o plastica), ma
non hanno presentato grandi differenze salvo le colorazioni
riscontrabili nel rivestimento esterno. La forma rettangolare è
stata mantenuta a lungo malgrado i cambiamenti spettacolari intervenuti
anche nella nautica minore, ormai in continuo divenire, una
fedeltà che non è riscontrabile altrove.
Nella dirimpettaia costa e
territorio del Galles si trovano le “coracle” in cui
predomina la forma rettangolare, che sul fiume Teifi tende ad
ovalizzarsi e arrotondarsi in una delle due estremità minori che
può fungere da poppa. Una fotografia scattata nel 1890 in
Irlanda mostra questa forma arrotondata in tutte e due le
estremità minori, che compare anche nel Galles. Sui fiumi Taf e
Tiwy questa forma si fa più precisa, ed esistono anche
“coracle” rotonde, come in Irlanda sul fiume Boyne.
Tornando a noi, non occorre
andar tanto lontano dal Delta del Nilo, basta risalire il mare Jonio e
l’Adriatico verso il settentrione e arrivare all’isola di
Lesina. Nella grotta Grabar (?) l’allora giovane Mario Radmilli,
futuro professore di paleontologia dell’Università di
Pisa, ha trovato un frammento di vaso di ceramica impressa con una
figura interpretata come una “qufa” (o
“carabus”?), cosa non impossibile stante gli apporti del
Basso Adriatico in fatto di nautica primigenia per merito dei Dauni e
dei Piceni.
Le
barche rotonde con intelaiatura a paniere, cioè le
“qufa”, non mancano nella regione indocinese, molto ricca
in fatto di imbarcazioni di tutti tipi. Danang presenta un tipo raro,
addirittura unico, perché munito di una piccola vela con timone
a calumo e col rivestimento esterno formato da strisce di bambù
strettamente intrecciate, che sono tipiche di tutta l’Indocina.
Nel Tonchino la “qufa” compare nella forma di semicupola
rovesciata e appiattita, e in un tipo dell’Annam il cesto si
allunga, si restringe e prende la forma della canoa, primo passo verso
tipi di barca vera e propria, che può presentarsi anche in
regolare forma rettangolare cioè senza prua e senza poppa.
Recita
la sua parte anche l’India con numerose imbarcazioni a paniere
tutte uguali, con fitto intreccio interno di fusti di bambù, le
capienti “parisal” dei bacini fluviali occidentali, lungo
le coste del Coromandel nonché del Pakistan.
Nel Nord America le
“qufa”, dette “bull-boat”, erano usate dagli
indiani delle praterie in esemplari poco elaborati e dall’aspetto
poco robusto, muniti di pelli di bufalo o di bisonte. Nel Nord Dakota e
nel Missouri Superiore si distinguevano per il fatto che le verghe
dell’intelaiatura uscivano dal terminale formando una pronunciata
dentellatura semilunata, forse per il fatto che l’intelaiatura
veniva messa insieme a rovescio cioè col fondo in alto. Nulla in
comune con le belle filanti canoe con le caratteristiche prua e poppa
di uguale forma conosciute da tutti.
Si può notare una
cuginanza anche se non diretta ma possibile nelle imbarcazioni
rettangolari del Tibet, sul fiume Tsangpo, di grandezza variabile e
capacità di carichi leggeri, dove la funzione principale, quella
della impermeabilizzazione esterna, viene affidata alle pelli di
yak.
Esistono infine tipi nei quali
la costruzione viene divisa in due parti separate, come accade nella
regione indocinese, nell’Annam Centrale. La parte inferiore,
notevolmente allungata, mantiene l’intreccio proprio dei panieri
e serve da carena, la parte superiore è formata da tavole
costituenti la fiancata che viene fissata alla parte bassa a fine
lavoro per la messa in acqua come barca vera e propria.
Si passa poi ad un tipo anche
esso leggero ma di costruzione del tutto differente, quello del
“kajak” e dell’ “umiak” dei mari freddi
del Nord America, che vanno collocati su di un gradino superiore sia
per tipologia che per attività esecutiva e pertanto fuori tema.