Le prime dreadnought
tedesche alla pari con la controparte britannica
La
cosiddetta dreadnought ha rappresentato il fior fiore
della nave da guerra d’alto bordo che ha dominato la scena
nel corso della
prima metà del 1900.
Indice di potenzialità nazionale, è stata la nave
più
potentemente armata e nello stesso tempo meglio protetta da corazze di
avanzata
tecnica siderurgica, con equipaggiamenti d’avanguardia con la
conseguenza di
divenire in termini economici la più grande e più
costosa delle unità in
servizio. È comparsa pertanto in numero limitato sotto
bandiera di pochi paesi
che hanno potuto permettersela, un biglietto da visita tenuto in gran
conto con
la bandiera orgogliosamente alzata nelle reciproche visite di cortesia
all’estero che un tempo si usavano fare specialmente tra
Inghilterra, Germania,
Francia, Italia, Russia, Austro-Ungheria, Stati Uniti e Giappone.
centinaia di caldaie a
carbone a pieno regime provocavano tanto fumo
da rendere visibile la formazione da lunga distanza
Unità militare, certamente, ma legata direttamente alla politica estera del paese di appartenenza condotta a ritmi sempre più serrati e a volte spregiudicati a sostegno di espansioni commerciali e coloniali fino a giungere alla grande guerra del 1914-18.
La prima unità veniva varata in Inghilterra nel 1906 con il nome “Dreadnought” (Senza paura) passato come aggettivo ad indicare un tipo di nave che non aveva precedenti. L’idea risaliva al colonnello del genio navale italiano Vittorio Emanuele Cuniberti, valente progettista che, in epoca in cui dominava la confusione operativa determinata dalla pluralità dei calibri imbarcati, proponeva la razionalizzazione delle artiglierie di grosso calibro mantenendo l’architettura generale dello scafo delle navi del suo tempo. L’idea propugnata dal Cuniberti sollevava interesse, si, ma trovava non poche resistenze in quanto il nuovo tipo comportava il declassamento delle numerose corazzate già in servizio (poi denominate predreadnought”). I costi erano alti e l’Italia non era disposta ad affrontarli ritenendo di avere già una marina adeguata in un mare chiuso qual’era il Mediterraneo. Cuniberti guardava allora all’Inghilterra dove pubblicava uno studio concernente le sue idee, “An ideal Battleship for The British Navy”, che incontrava l’approvazione di John Fisher, l’esponente più autorevole della marina britannica, che dava attuazione pratica all’idea in tempi di tensione determinata dalla lotta aperta dalla Germania con l’Inghilterra per la supremazia finita con la conquista tedesca della parità navale.
Grande l’interesse sollevato a livello mondiale con conseguente apertura della corsa alla costruzione del nuovo tipo di nave corazzata con studiati perfezionamenti strutturali.
La prima dreadnought italiana arrivava nel 1916 con la “Dante Alighieri”, quasi tutta scafo con sovrastrutture limitate al massimo, come appariva anche nella classe “Gangut” della marina russa che rispecchiava chiaramente le idee di Cuniberti, e nella “Satsuma “ giapponese. Una gara tra unità sempre più grandi e sofisticate con dislocamenti crescenti resi necessari per più ragioni d’armamento, di equipaggiamento, di macchine motrici, di velocità, di autonomia.
Si
imponeva la necessità di
grossi cantieri e stabilimenti
collegati, oltre agli arsenali militari già esistenti, che
acquistavano nomi di
rilievo quali Armstrong, Vickers , Thornycroft, Schneider, Bofors,
Parsons,
Krupp, Ansaldo, Zeiss, e una proliferazione di attività
minori ma importanti ai
quali si aggiungevano presto gli stabilimenti dell’ USA e del
Giappone, indice
di quanto lavoro e attività collegate mettevano in moto le
dreadnougths, vere
regine del mare che abbisognavano anche di strutture a terra e di
naviglio scorta.
Ragione per cui le potenze navali cercavano negli anni 20 con gli
incontri di
Washington e di Londra di frenare e disciplinare le costruzioni
militari con
accordi e intese internazionali. Contrastanti i pareri tra i fautori
delle
grandi navi e coloro che le considerava non più impiegabili
proficuamente, e a
ragione si dirà col senno di poi. Si metteva mano anche alla
modernizzazione
delle vecchie corazzate, a volte una vera e propria ricostruzione. La
potenza
d’impatto raggiunta dai proiettili di grosso calibro e la
potenza demolitoria
dei siluri imponevano mutamenti strutturali degli scafi e delle carene.
Venivano adottate diverse soluzioni concernenti lo spessore e il
posizionamento
delle piastre di corazza unitamente ad una compartimentazione cellulare
con
paratie verticali o inclinate, per lo più non avvertibili
all’esterno, con la
conseguenza di provocare non poco l’aumento dei tonnellaggi
di dislocamento. Particolare
attenzione era rivolta al siluro, l’avversario più
temuto. Si provvedeva alla difesa
passiva dello scafo con una rete parasiluri tenuta in posizione a nave
ferma da
una serie di buttafuori, il tutto ritirato a ridosso dello scafo a nave
in
movimento. Una soluzione assai poco pratica e ingombrante che veniva
presto
abbandonata. Si imponeva anche la tattica di tenere le corazzate, in
combattimento, il più lontano possibile dalle
unità avversarie con l’aumento
della gittata dei cannoni di grosso calibro per cui venivano adottati
vistosi
telemetri e apparecchiature sofisticate tanto da poter ottenere dati di
tiro
accettabili arrivando a sorpassava la distanza di
La corazzata diveniva così qualcosa di molto diverso dai primi passi.
Nella
seconda metà degli anni 30, subentrati i periodi di
crisi politiche che avrebbero portato alla seconda guerra mondiale
1939-45, comparivano
alla ribalta la “Vittorio Veneto” italiana
e la “Bismarck” tedesca, due unità
spettacolari, con la conseguenza di indurre l’ Inghilterra,
gli Stati Uniti,
Non si parlava più di dreadnoughts bensì di navi da battaglia o supercorazzate a designare un tipo di nave divenuta ormai completamente diversa dai primi passi suggeriti da Cuniberti e da Fisher, frutto ormai men che meno arrischiabile in operazioni belliche secondo il concetto di tenere le grandi navi al riparo per fare sentire il loro peso nelle trattative internazionali sostenuto nell’ambito stesso delle singole marine dai fautori di due diversi indirizzi: da una parte la non spendibilità delle grandi unità da una parte e dall'altra la convenienza di unità più piccole ma numerose e impiegabili in ogni occorrenza.
Ma siamo alla fine, l’arma aerea stava conquistando il dominio dei cieli e avrebbe imposto in breve un radicale mutamento anche sul mare.
Vittorio Veneto: protezione subacquea Pugliese con cilindro assorbitore e sistema di bilanciamento automatico in caso di falla. |
Diversi tipi di corazzatura e schemi di difesa subacquea. |