Il trabaccolo è la
navicella tipica del Mare Adriatico, che troviamo presente in tutti i
porti dalla Puglia a Venezia, dagli approdi dell’arco costiero
settentrionale all’Istria per scendere lungo la Dalmazia fino
all’Albania.
L’inconfondibile tipo è rintracciabile già nel 1700
ma si è perfezionato e sviluppato nel corso del 1800
soppiantando gli altri cabotieri per regnare sovrano fino ai giorni
nostri cedendo infine lo scettro ai trasporti per via terrestre su
ruota gommata ormai dominante.
È una imbarcazione quanto mai robusta con carena arrotondata ,
chiglia e paramezzale, prua e poppa piene, interamente pontato, con
capace stiva centrale. Al centro una grande boccaporto presenta il
bordo tenuto alto, a prova d’acqua, dato che lo scafo può
portare tanto carico fino ad avere l’acqua in una coperta tenuta
sensibilmente a schiena d’asino.
Due alti alberi alzano ciascuno una grande vela al terzo con pennone
alto e basso e con cadute più lunghe rispetto alle vele delle
altre barche adriatiche, di superficie pressoché uguale e
disposte una su di un lato e l’altra sul lato opposto,
disposizione detta “a trabaccolo” che consente
l’andatura “a farfalla” con il vento in poppa. Nei
primi tempi gli alberi portavano una vela quadra di gabbia , di cui
sono rimasti a volte, per tradizione, gli alberetti.
Una lunga asta di bompresso porta un polaccone, che nella permanenza in
porto viene tenuta alzata per evitare un inutile ingombro fuoribordo.
Da ultimo, dopo la prima guerra mondiale, il trabaccolo viene
motorizzato consentendo con ciò di mantenere la sua presenza
ancora in attività anche se non più in posizioni di
supremazia.
La pitturazione dello scafo è sobria, per lo più chiara.
Ogni cura decorativa è riposta nella “zoia”,
la travatura orizzontale di raccordo in corrispondenza della parte
interna del mascone (prua) e rispettivamente di poppa. La superficie
è spesso intagliata con motivi floreali, o zoomorfi o
antropomorfi colorati vivacemente. Vi compare spesso la data della
costruzione. Le vele sono colorate uniformemente in giallo ocra o
mattone e raramente decorate com’è il caso invece del
bragozzo.
Elemento decorativo caratteristico, inconfondibile, che non può
mancare, è dato da due grandi occhi apotropaici stilizzati che
fanno spicco sul mascone, sul capodibanda del quale compaiono sovente
due insellature raccordate con la ruota di prua rientrante alla
sommità. Occhi variamente colorati quali distintivo di ciascun
armatore.
La portata è variabile a seconda delle dimensioni dello scafo e viene inizialmente misurata in “vagoni”. Gli esemplari più grandi non superano la portata di 15 vagoni (150 tonn.).
Il trabaccolo da carico non va confuso con la versione da pesca, del
quale ripete le forme ma alleggerite, meglio conosciuto come “barchet” e diffuso nelle Marche e nella Romagna.
Si può ritenere derivante dal trabaccolo, o un suo adattamento, anche il “pielego”
che porta a poppa in luogo della vela originaria una randa
accompagnata, ma non sempre, dalla modifica strutturale della poppa
stessa.
I dati numerici riportati nelle pagine che seguono sono frutto di un
paziente setacciamento dei registri navali eseguito dall’ing.
Ernesto Gellner. Bene illustrano la situazione con minute indicazioni
la maggior parte trascurate ma tali da presentare un quadro
interessante sotto tutti i punti di vista. Quadro che ha visto
nell’immediato secondo dopoguerra una ripresa del trabaccolo per
le impellenti necessità di stiva, ma per breve tempo in quanto i
cantieri navali riprendevano appena possibile la loro attività.
Siamo giunti così alla fine dopo due secoli e più di attività.
Imbarcazione robusta, si è detto, e capiente. Prova ne sia che
nel corso delle due guerre mondiali sono stati impiegati anche i
trabaccoli sia dalla parte italiana che da quella austro –
ungarica.
La lista delle militarizzazioni italiane comprende non meno di 168
unità, 88 delle quali in regime di requisizione, di noleggio, in
periodi differenti e con compiti vari, servizi portuali, dragaggio,
vigilanza foranea, vigilanza delle ostruzioni, predisposizione come
unità di sbarco e servizi onerari. Pesante lo scotto delle
perdite ma anche ricuperi e ritorno in attività.
Da notare, nel corso della prima guerra mondiale, i quattro trabaccoli della classe “Foca”
armati ciascuno con un con un grosso cannone navale da 152,40 mm. il
che conferma la robustezza strutturale dello scafo forse con qualche
adattamento reso necessario per ragioni di ingombro.
Dalla parte austro – ungarica i trabaccoli militarizzati sono
stati 50, in servizio per lo più a ridosso del fronte terrestre,
15 dei quali nel servizio mine e 13 nella flottiglia lagunare, deposito
munizioni e benzina, servizi di guardia portuale (una classificazione
del registro navale del 1912 riportava sotto la bandiera austro –
ungarica 96 unità in tutto) .
Intorno al 1986 si verifica un risveglio d’interesse degli
studiosi per l’etnologia marinara, con riferimento in particolare
al ricco patrimonio di barche tipiche di ciascuna zona costiera ad
iniziare dalle lagune di Venezia, Chioggia, Marano e Grado fino alla
vicina Istria, in via ormai avanzata di sparizione. Entra in varia
attività un gruppo molto affiatato con interessanti iniziative ,
tra le quali alcuni incontri anche internazionali tenuti specialmente a
Grado grazie alla disponibilità di quella amministrazione
comunale. L’attività si allarga fino a giungere alla
costituzione a Cesenatico del Museo della Marineria con sezione
galleggiante che accoglie le barche salvate dalla demolizione e
attentamente restaurate. Tra le quali non poteva mancare, chiaramente,
un grande trabaccolo a signoreggiare con le alte sue vele e con
l’ampio polaccone la schiera delle altre barche in mostra con un
richiamo senza pari.
Ricca la bibliografia , ma ci piace ricordare qui il ricco volume “Trabaccoli e pieleghi nella marineria tradizionale dell’Adriatico” di Mario Marzari, uno dei promotori del citato risveglio, pubblicato nel 1988 dall’editore Mursia di Milano.
Cosa rimane oggi? Poca cosa, alcuni trabaccoli fortunosamente salvati
dalla demolizione e visibili a Venezia ma specialmente a Grado, eletta
centro nautico battente per lo più la bandiera austriaca rossa
bianca rossa per iniziativa di appassionati cultori di marineria
d’Oltralpe accompagnata da attività pratiche quali nave
scuola o per crociere in Adriatico e Jonio, con imbarco di una decina o
poco più di persone, ad una delle quali ha partecipato anche
Mario Marzari.
Il primo trabaccolo trasformato in yacht è stato nel 1929 il “Daniza” per conto della regina della Jugoslavia Maria Karagjogjevic (l’ex “Orifiamma”
del 1911) .Ma è con la ripresa sociale ed economica seguente la
fine della seconda guerra mondiale che prende corso
l’utilizzazione dei trabaccoli giunti ormai alla fine della loro
attività originaria, primo dei quali il “Seekuh” ( ex “ I Quattro Fratelli”) di Theo Klinzer con inizio a Grado come nave scuola. Si faceva notare “Il Nuovo Trionfo”
(1926) (vedi il sito dell'associazione no profit Il Nuovo Trionfo) acquistato dal viennese Hugo Hermann che mantiene inalterato il
suo nome originario portando avanti l’iniziativa a lungo. Seguono
altri come l’unità assegnata alla scuola telegrafisti di
Grado, passato alla Lega Navale Italiana, magari per mutamento di
proprietà e di nome come il caso che riteniamo raro de “L’Isola d’Oro” visto brillante di pitturazione fresca sullo scalo in cantiere, sempre a Grado, nel maggio del 2009 (!).
Il compilatore di queste note ha avuto anni fa l’occasione di
parlare con Silvio Bullo, proprietario e armatore del “Giovanni Pascoli” (1936) , da tempo in sosta inattiva nella Sacchetta di Trieste, e con Giuseppe Visentin armatore del “Marin Faliero”
(1899), in sosta inattiva a Monfalcone. Si rendevano conto entrambi che
i tempi erano radicalmente mutati ma la loro preoccupazione riguardava
la temuta fine riservata alle loro navicelle.