Il Mare Adriatico
rappresenta geograficamente e idealmente lo spartiacque meridionale tra
l’Oriente e l’Occidente, tra i due mondi che hanno scritto pagine primigenie,
formative e significative nella storia di questa parte del mondo. Lungo circa
800 chilometri, largo 200 chilometri nella parte mediana e 72 chilometri in
basso, più che Mare si potrebbe dire Canale Adriatico.
Orientato pressoché
verticalmente dal settentrione al meridione, il Mare Adriatico mette in diretta
comunicazione l’Oltralpe centro europeo con l’Egeo, l’Asia Minore e il Nord
Africa, con i posti cioè dove è nata la nostra civiltà.
Via d’acqua quanto
mai variata sotto l’aspetto idrografico, morfologico costiero, antropologico e
culturale, storico, artistico, politico e militare, economico e produttivo, in
tutte le manifestazioni che i secoli hanno sedimentato formando un conglomerato
senza pari.
La navigazione ha
svolto in questo contesto una funzione di importanza essenziale con
caratteristiche salienti in fatto di ideazione, costruzione e armamento navale,
navigazione costiera, di cabotaggio e d’altura, pesca e nautica agonistica e da
diporto, tanto da acquisire non poche posizioni di rilievo in tutto il
Mediterraneo.
Tutto questo, non
occorre dirlo, si trova ampiamente argomentato ed illustrato in un grande
numero di pubblicazioni di vari autori specializzati per cui ci limiteremo,
qui, a proporre una semplice e sintetica rassegna raccogliendo gli echi di un
passato storico che ha lasciato tracce indelebili, con riguardo anche alle navicelle
e alle barche locali dell’ultima generazione, qualche esemplare delle quali,
sfuggito fortunosamente alla demolizione, è ancora visibile o in qualche modo
riconoscibile in un paesaggio ormai completamente mutato.
Entreremo nel
“canale” doppiando il Capo di Santa Maria di Leuca e rasentando la penisola
salentina ci fermiamo un momento a Brindisi, punto d’imbarco dei Romani diretti
in Grecia. Cerchiamo di vedere nella base navale le sagome grigie degli
incrociatori inglesi del tempo della prima guerra mondiale qui all’erta.
Qualcuno ci dirà qualcosa dell’incredibile grande ostruzione retale esplosiva
che, sorvegliata in forze, andava fino a Corfù, stesa per fermare l’entrata e
l’uscita dei sommergibili austro-ungarici e tedeschi basati a Cattaro e a Pola.
Un sabotaggio terroristico con morti e feriti provocava l’affondamento in porto
della R.Nave stazionaria “Benedetto Brin” seguito dall’affondamento a Taranto
di una seconda più importante unità , si mobilitava il servizio segreto della
marina che riusciva a smascherare la rete spionistica austro-ungarica in Italia
catturando anche i colpevoli dei sabotaggi, che finivano davanti al plotone di
esecuzione.
Proseguendo davanti
a località interessate al mare con Bari in testa e lasciando al largo
profondità marine di 1200 e 1300 metri, ecco lo sperone del Gargano che dal
Tavoliere sale fino a superare i 1000 metri. Il mare sembra non bastare ed
ecco, appresso, i due laghi costieri di Varano e di Lesina dove si vedevano
piccole barche munite di remi a brazzera e vela. La costa del Molise,
dell’Abruzzo e delle Marche scorre importuosa e indifesa mentre le cime degli
Appennini s’alzano esibendo una staccata indifferenza. Durante la guerra
sopraccitata è la Regia Marina a pensare alla difesa costiera armando di cannoni
non navi ma i treni che fanno la spola avanti e indietro lungo le rive. Ad
Ancona, all’ombra del Monte Conero che sembra volersi ergere ripido a
contrastare la superficie piatta del mare, non si vedono fumi di molte navi
grigie, ma si sentono ruggire i motori Isotta Fraschini: sono le squadriglie
dei MAS, i motoscafi siluranti geniale trovata della SVAN di Venezia, che danno
molto filo da torcere all’avversaria marina austro-ungarica. Di fronte,
dall’altra parte dell’Adriatico, l’isola di Premuda fa da sfondo al siluramento
della corazzata “Szent Istvan” (1918) da parte di Luigi Rizzo che così
impedisce l’azione avversaria in forze contro lo sbarramento retale di Otranto.
Tutto cose che stanno svanendo nelle nebbie di un passato ormai lontano.
Si arriva alle
basse coste della Romagna, ai porti canale, a Cesenatico dove esiste un museo,
unico del suo genere, che allinea più tipi di autentiche barche tipiche salvate
dalla distruzione e amorevolmente restaurate. Si arriva alla mitica Ravenna
ormai interrata, già base navale romana e metropoli medioevale splendente di
preziosi mosaici. Un tempo la metropoli, capitale dell’Impero Romano
d’Occidente, era collegata con la lontana Aquileia da una serie di specchi
d’acqua riparati da cordoni sabbiosi affioranti, detti Septem Maria (sette
mari), percorribili anche d’inverno in epoche in cui l’inverno segnava la
sospensione della navigazione marittima.
I fondali si fanno sempre più bassi per
toccare le pescose Valli di Comacchio, vivaio di anguille e delle collegate
industrie ittiologiche, gli intrichi delle Bocche del Po, il capriccioso fiume
che divide la Pianura Padana in due parti toccando lontano dal mare anche
Torino.
Chioggia sta ad un passo e qui dovremmo
soffermarci perché Chioggia ha ricoperto un tempo il rango di primo centro
peschereccio d’Italia con gran numero di imbarcazioni di più tipi sparite ormai
in gran parte ma non dimenticate. La flotta peschereccia chioggiota, nata in
laguna, operava in tutto l’Alto Adriatico, ad occidente e ad oriente, con numerosi
punti base costantemente attivati, in un bacino di alta produttività grazie
alle particolari condizioni fisiche ed ittiche che davano al pescato costiero
nazionale più del 40%, del 93% con riguardo alle vongole (statistica del 1986).
Emerge in fatto di manifestazione ottica l’uso generale di dipingere le vele
con colori tradizionali giallo ocra e rosso mattone e con simboli costituenti,
se così si può dire, una specie di araldica di riconoscimento a distanza, fatto
unico che non ha riscontro in nessuna altra parte se non nelle vele delle
Filippine dove però la figurazione è ridotta a semplici geometrie
policrome.
Ma a far la parte
del leone si ergono qui la laguna e la Serenissima Città di Venezia col suo
storico Arsenale, il fumoso Arzanà di Dante, primo del Mediterraneo.
Prima di entrare
nella laguna, fermiamoci davanti ad una o all’altra bocca del Lido, a
Malamocco, per consultare un momento una carta morfologica dei fondali marini,
che in questa parte dell’Adriatico, partendo dalle Marche, prima di Ancona,
sono saliti tanto da lasciare tiranti d’acqua non superiori a 10-12 metri o
poco più, sparsi di affossamenti e sollevamenti di varia origine e natura, di
sedimenti dovuti per lo più ai numerosi fiumi, non solo del grande Po, che
sboccano lungo tutto il giro costiero del Golfo con coste sabbiose da una parte
e rocciose dall’altra, creando un ambiente interessante in fatto di biologia
marittima. L’attività peschereccia si sviluppa grandemente e impegna gli organi
governativi degli stati rivieraschi Italia, Austria, Austria-Ungheria, Regno
dei SHS (Serbi, Croati e Sloveni), Jugoslavia in accordi e disaccordi a non
finire con episodi a volte di violenza, in rapporto a temuti depauperamenti del
patrimonio ittico dei quali si dà la colpa a metodi di pesca con l’impiego
delle reti a strascico introdotto dai chioggiotti. Si giunge nel 1975 al
trattato di Osimo con la creazione, perfino, di una artificiosa zona di pesca
comune che però continua a non risolvere gli attriti.
Venezia è nata e
vive sul mare della laguna, centro urbano percorso e circondato da numerosi
canali e da isole, il che significa che le barche sono tante quante i vasi a
Samo e le nottole ad Atene, di ogni grandezza, per ogni genere di servizio e di
spostamento con in testa la gondola universalmente nota grazie al ferro dentato
che esibisce sulla prua, come conosciuto è anche il Bucintoro, la grande barca
da cerimonia del Doge, splendente di dorature. Gli arsenalotti stanno per
importanza in testa ai vari mestieri e molto attiva è la marina mercantile con
presenza di naviglio di tutti i paesi marinari d’Europa finché la scoperta
dell’America non provoca lo spostamento degli interessi commerciali europei
sull’Oceano Atlantico, una delle cause della decadenza marinara della metropoli
adriatica. La laguna accoglie anche le barche delle acque interne,
principalmente i burchi, che numerosi sboccano dai fiumi e dai canali, capaci
anche di tratti di navigazione marittima fuori della laguna che esercita la
funzione di cerniera con l’entroterra.
Riprendendo il giro
e puntando ad oriente, emerge lungo il litorale il ricordo dei marinai del
1917-18 che, avendo perduta la nave o destinati a terra, hanno dimesso le
casacche blu e indossato le divise grigioverdi attestandosi nelle trincee delle
linee costiere. Nasceva il Reggimento San Marco. È singolare il fatto che,
dalla parte avversa, si sono trovati di fronte altri marinai inquadrati in una
divisione austro-ungarica di fanteria, unità mista al comando di un ammiraglio.
Si passa davanti ai
centri pescherecci di Caorle e di Grado, antico avamporto di Aquileia, dove il
ricordo della romanità, prima, e della signoria feudale dei patriarchi, poi,
regna sovrano. È in vista Monfalcone che alza alte le strutture di principale e
attivissimo cantiere navale d’Italia con realizzazioni imponenti. Poi le
avvisaglie del roccioso Carso, che si alza per scende a picco sul mare esibendo
i castelli di Duino e di Miramare, che parla dello sfortunato granduca
Massimiliano, morto in Messico davanti ad un plotone di esecuzione. Si scende
infine a Trieste dove la storia marittima adriatica cambia registro e tono con
la dichiarazione di porto franco voluta dall’imperatore Carlo VI (1719) e
l’Atto di Navigazione promulgato dall’imperatrice Maria Teresa alcuni anni
dopo. Venezia non è più in grado di opporsi e finisce sotto il tallone di
Napoleone. Scende la bandiera con il Leone di San Marco e sale a riva quella
con l’Aquila Bicipite, e allora l’Arsenale sembra risorgere. Ma è la volta di
Trieste che si organizza e, ingrandendosi, diviene centro primario portuale,
cantieristico, armatoriale, assicurativo, economico, attirando iniziative e
convivenze da ogni dove. Entra in attività nel 1818 la linea di navigazione a
vapore tra Trieste e Venezia con un piroscafo a ruote, la prima del
Mediterraneo, e Giuseppe Ressel sperimenta uno dei primi battelli ad elica
sfiorando il primato. La navigazione lungo le coste dell’Istria viene
organizzata ed assistita capillarmente con fari luminosi e segnalamenti fissi e
mobili. Interessante il faro di Punta Salvore che per primo ha usato nel 1818
l’illuminazione a gas ottenuto sul posto da una caldaia di distillazione del
carbone. Interessante pure il Faro della Vittoria di Trieste che con le sue
120.000 candele proietta i fasci di luce fino a 36 chilometri di distanza,
opera rilevante non solo tecnica ma anche artistica. Da notare inoltre il
Canale di Leme, un fiordo con fondali molto alti, da 20 a 40 metri, che penetra
nell’interno tra scoscese rive per 12 chilometri, ricco di pesce pregiato, con
sorprendenti fenomeni di alta e bassa marea. Da ricordare la baia di Porto
Quieto dove un tempo sostavano in quarantena sanitaria i mercantili prima di
ottenere la libera pratica. Poi la città di Rovigno centro peschereccio e sede,
un tempo, del corpo dei “pedotti”, i piloti che le navi erano tenute ad
imbarcare per entrare nel porto di Venezia.
Il litorale
istriano è stato ben guarnito dall’Austria-Ungheria, che pur si è considerata
una potenza continentale, trasferendo a Pola l’arsenale di Venezia e mettendo
in piedi una base navale di primaria importanza passata nel 1918 all’Italia,
che ne fa un centro di scuole militari per il Corpo Reale Equipaggi Marittimi,
i sommergibili, gli aerosiluranti, la Guardia di Finanza. Due sono i fatti
assai luttuosi verificatisi in queste acque. L’affondamento del piroscafo da
passeggeri “Baron Gautsch” per urto accidentale su di una mina dello
sbarramento difensivo della piazzaforte (1914) e l’affondamento del
sommergibile “F 14” per investimento accaduto durante un’esercitazione nel
canale di Fasana (1928). Luttuoso in un altro senso e riguardante tutta la
città è l’esodo pressoché totale della popolazione avvenuto agli inizi del 1947
con l’abbandono dei beni immobili e anche di molta parte dei beni mobili,
conseguenza di un cambio di confine imposto dal trattato di pace.
Doppiata la punta
meridionale dell’Istria a Capo Promontore, scapolato lo scoglio della Galiola,
che ricorda l’avventura del sommergibile “Pullino” e la tragica fine di Nazario
Sauro (1916), si entra nel tempestoso Quarnero e nel Golfo di Fiume, secondo
porto mercantile dell’Austria-Ungheria, appartenente al Regno d’Ungheria.
Riaffiora per un momento la memoria di Gabriele D’Annunzio, il risoluto Poeta
Soldato capace anche di mosse avventurate a dispetto di tutti. Fiume detiene
anche un primato non invidiabile, quello della ideazione e della realizzazione
del siluro (1865), la micidiale arma navale che nel corso delle guerre ha
provocato l’affondamento di un grandissimo numero di navi tanto da far vacillare
una potenza come quella che era l’impero inglese.
Il Quarnero bagna
le isole di Cherso e di Veglia e, cominciando la discesa, si passa nel
Quarnerolo. Entriamo in un altro mondo formato da un dedalo inestricabile di
isole allungate, di strette strisce di terra orlate di ripide montagne, di
scogli e di canali navigabili con buoni fondali rocciosi, che scendono in due
serie parallele . Un ambiente molto adatto all’attività di pirateria quale è
stata praticata nell’antichità fin dall’epoca dei Romani tanto da imporre
l’adozione di un mezzo navale di contrasto adatto, un naviglio leggero, veloce
e manovrabile, ad un solo ordine di remi, noto col nome di liburna, non essendo
impiegabili le grandi e impressionanti ma lente poliremi della flotta di
Ravenna. Anche Venezia ha avuto il suo da fare con le sue agili galere contro i
Narentani e più ancora contro i sanguinosi e feroci Uscocchi, domati a stento.
Un altro mondo, si è detto, risuonante dei colpi di pistola di Sarajevo del 1914
che si trasformano in breve in innumerevoli colpi di cannone rovesciando tutti
gli equilibri dell’Europa del tempo. Un ambiente che facilitava il traffico
sotto costa tra il porto di Fiume e le linee del fronte austriaco in Albania.
Va citato a titolo di curiosità che un grande numero di navi mercantili grandi
e piccole, più di una novantina, sono state tenute al sicuro, in disarmo, nel
lago di Proclan presso Sebenico, in posizione del tutto irraggiungibile dalle
offese. Meno protette invece le coste meridionali, quelle del Montenegro, ma
non è mancata una base navale inviolabile nelle Bocche di Cattaro, quasi a
ridosso del confine con l’Albania, segnato dal fiume Boiana, e l’isola di
Corfù, che era stata un tempo sede del Capitano del Golfo, cioè del comandante
in capo della flotta veneziana essendo detto Golfo di Venezia tutto
l’Adriatico. Non vanno dimenticate, per finire, due città dalmate: Ragusa,
antica repubblica marinara italiana (le repubbliche marinare italiane sono
infatti cinque e non quattro) per secoli indipendente; e Zara, ultimo lembo di
una Dalmazia italiana, distrutta dapprima dai bombardamenti aerei,
pretestuosamente provocati, e poi dall’esodo dei suoi abitanti (1944-45).
Abbiamo parlato di
pirati, ma bisogna parlare anche di corsari spuntati in forze all’epoca delle
guerre napoleoniche e del blocco navale in un Adriatico percorso in lungo e in
largo non solo dai contendenti principali, Francesi e Inglesi, ma anche da navi
militari che alzavano la bandiera russa, turca, spagnola, portoghese, avendo i
Francesi la loro base principale ad Ancona, e gli Inglesi, a Lissa. Avevano
messo mano alla guerra di corsa arruolando gente di ogni risma e nazionalità e
perfino il ceto mercantile di Trieste aveva tentato la sorte armando un suo
corsaro. Due i fatti d’arme di rilievo, la battaglia navale di Lissa del marzo
1811 tra navi italo-francesi e navi inglesi costata molti morti feriti e danni,
quanti potevano essere provocati a distanza ravvicinata da 284 cannoni degli
uni e 121 degli altri., e lo scontro tra due gruppi contrapposti avvenuto tra
Caorle e Grado nel febbraio del 1812, quasi in vista di Trieste. Di Lissa molti
hanno sentito parlare con riferimento alla battaglia del 19 luglio 1866 tra
navi italiane e austriache, entrata nella storia d’Italia come fatto
estremamente luttuoso e negativo. In realtà non si è avuta una vera e propria
battaglia navale, qualche ora di cannoneggiamento reciproco tra un fumo che
impediva valutazioni corrette non basta e nessun insegnamento ne è seguito. Lo
speronamento di una nave, la “Re d’Italia”, caso unico, ha creato nelle varie
marine militari l’errata convinzione dello sperone quale arma fatale e tutte le
navi ne furono munite, a lungo.
In un ambiente come
quello adriatico trovano spazio fin dall’antichità moltissimi mezzi nautici
grandi e piccoli di vario tipo, nome e impiego.
Quale il più antico
reperto attualmente noto? Una incisione su coccio preistorico individuata nella
grotta Grabar dell’isola dalmata di Lesina da Mario Radmilli, professore di
paleontologia ed archeologo nell’Università di Pisa, che può interpretarsi
simile ad una attuale “coracle” irlandese, ed anche a quanto appare in
fotografie della Mesopotamia e dell’ India, che porta al “carabus” romano e a
certe barche indocinesi.
Si vedano poi la
stele di Novilara (Pesaro), la stele di Daunia (Puglia), la stele del faber
navalis P.Cattius di Aquileia ( I° sec. a.C.) e quella del faber Longidienus di
Ravenna (I° sec. d.C.), le onerarie romane nei bassorilievi di Aquileia,
Trieste e Spalato, i mosaici di Ravenna e di Venezia e via via le navi a più
alberi e a più vele, ben riconoscibili grazie al disegno sempre più preciso.
Tralasciamo la nomenclatura citando solamente la marciliana che è il cabotiero
che non manca mai nelle raffigurazioni fino al 1700.
In fatto di ultima
presenza operativa bisogna soffermarsi sul trabaccolo, che troviamo registrato
nel 1940 in 357 unità con 38 località di appartenenza, di cui 103 unità nella
Venezia Giulia, presente anche in Calabria e in Sicilia. Compare nel 1700 ma si
perfeziona e si sviluppa nel secolo successivo soppiantando ogni altro tipo.
Diremo soltanto che si tratta di un cabotiero a due alberi e due vele al terzo
veramente robusto e prestante, capace di carico tanto da trovarsi a volte con
l’acqua in coperta tenuta molto curva con ampio boccaporto a sponda alta. Per
valutare di quali prestazioni è stato capace il trabaccolo si consideri il
fatto che durante la prima guerra mondiale 50 unità sono state chiamate a
prestare servizi vari nella marina austro-ungarica e 168 sono stati requisiti
dalla marina italiana nell’ultimo grande conflitto, con non pochi affondamenti
ma anche ricuperi e restituzione all’attività privata. I cantieri di
costruzione si sono trovati in una ventina di località con la preminenza di
Chioggia e Cherso. Non va confuso col
cabotiero il somigliante trabaccolo da pesca romagnolo detto barchetto.
Degli altri tipi
più importanti vanno citati la brazzera presente a lato del bragozzo
nell’Adriatico settentrionale, lungo le coste dell’Istria e della Dalmazia, e
il burchio, presente in buon numero nei collegamenti tra coste e canali della
navigazione interna con il centro nodale di Battaglia Terme.
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